Di quest’opera
vasta e profonda, che è il capolavoro della storiografia inglese del
Settecento, riporto, dalle pagine 68, 71 e 119 del primo volume, alcune
osservazioni che, mi sembra, aiutano a illuminare la scena politica italiana di
oggi.
Il passaggio dalla
‘repubblica’ all’’impero’ non fu né netto né chiaro.
“Il sistema del
governo imperiale, come fu istituito da Augusto e conservato dai suoi
successori, lo si può definire una monarchia assoluta travestita da repubblica.
I padroni del mondo romano avvolgevano il loro regno nell’oscurità e celavano
la loro forza irresistibile, professandosi umilmente ministri responsabili del
senato”.
Dopo che il senato
era stato umiliato e disarmato, Augusto e i suoi successori, nell’esercizio dei
loro poteri, consultavano frequentemente il supremo consiglio della nazione,
attenendosi in apparenza alle sue decisioni. In realtà i supremi decreti del
senato, erano essi stessi che li dettavano.
Augusto professava
un devoto rispetto per la libera costituzione che aveva egli stesso distrutto.
“Una mente fredda,
un cuore insensibile e un animo codardo gli fecero prendere all’età di
diciannove anni la maschera dell’ipocrisia, che non depose più... Egli voleva
ingannare il popolo con l’apparenza della libertà civile, e gli eserciti con
l’apparenza di un governo civile”.
Augusto, perciò,
mantenne con i loro nomi le antiche magistrature repubblicane, svuotandole però
di potere.
Egli “sentiva che
gli uomini si lasciavano governare dai nomi, né fu deluso nell’aspettativa che
il senato e il popolo avrebbero sopportato la schiavitù, purché fossero
rispettosamente assicurati che godevano ancora dell’antica libertà. Un senato
debole e un popolo smidollato si cullarono lietamente in questa dolce illusione,
finché la mantenne la virtù, o la prudenza, dei successori d’Augusto”.
Ben presto “il
senato fu pieno di schiavi colti ed eloquenti, i quali giustificavano
l’adulazione con teorie sulla schiavitù. Questi nuovi avvocati del dispotismo
erano con piacere ascoltati dalla corte e con pazienza dal popolo, quando
inculcavano i doveri dell’obbedienza passiva e discettavano sui mali
inevitabili della libertà”.
Non mancano
nemmeno oggi i servili avvocati del dispotismo (però né colti né eloquenti) al servizio di un
piccolo imperatore, formato tascabile, convinto di riuscire a nascondere la
realtà sotto l’alluvione delle sue parole. Non mancherebbe nemmeno un popolo
smidollato, contento di farsi ingannare.
Ma qui spero con tutto il cuore di sbagliare.
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