Ernesto Galli della Loggia ha
scritto un articolo, “Le sfide smarrite di Renzi”, pubblicato il 5 aprile sul
Corriere della Sera.
Chi è Galli della
Loggia? Massimo Fini nel suo libro di qualche anno fa “Senz’anima. Italia 1980-2010”
gli dedica alcune pagine negandogli ogni merito e qualità. Ma l’idea che
ho di Galli della Loggia me l’ero già fatta autonomamente, e nel libro di Fini
(che per la valutazione di politici e giornalisti è come il Catalogo Bolaffi per i francobolli) ho
trovato solo una conferma. Più di dieci anni fa il professor della Loggia
scrisse un indimenticabile articolo sul conflitto israelo-palestinese nel quale
riconosceva, sì, i diritti dei palestinesi, ma affermava che quei diritti
dovevano essere fatti valere con metodi non-violenti: manifestazioni pacifiche e scioperi della fame. Come definire un ragionamento di questo genere: esibizione di un equilibrista claudicante, oppure lo scherzo di un intellettuale con barba e zazzera da vip?
Galli della Loggia è dunque
un professore di storia, e sa scrivere analisi verosimili della nostra situazione sociale
e politica (scuola, corporazioni, burocrazia, partiti politici, gruppi
dirigenti, ecc.), che si possono facilmente condividere, ma che sono, nel
complesso, generiche e poco originali, formulate con una snervata serenità accademica, e
non hanno mai la passione, l’esattezza scientifica e l’acutezza psicologica per diventare qualcosa di meglio di una risaputa
tiritera.
Purtroppo è questo l’atteggiamento
più diffuso fra gli uomini di cultura. Poche settimane fa sono rimasto molto
sorpreso, per esempio, ascoltando alla televisione lo storico e filologo
classico Luciano Canfora, che rispondeva a domande sull’attualità politica. Benché
sia, o sia stato, legato a un partito di sinistra, mi è parso che parlasse
dall’oltretomba, tanto erano smorte sia la sua voce che le sue parole (per non
parlare della sua faccia).
Un osservatore
sincero e preoccupato delle condizioni del nostro paese dovrebbe commentare gli
atti del governo e dei politici con la stessa collera e nettezza con cui
Giuseppe Gioachino Belli parlava, quasi duecento anni fa, della Roma del Papa,
alla quale l’Italia di oggi assomiglia in modo grottesco sia sul piano della
politica che su quello del costume e della cultura.
Il professor della Loggia scrive il suo tiepido articolo “Le sfide smarrite di Renzi” senza collera e senza chiarezza. In lui c’è solo una vaga delusione.
Ed è una delusione che non duole, priva di spessore e di consistenza, perché
era già tutta inscritta nelle facili e velleitarie illusioni che Galli della
Loggia si era voluto fare quando Renzi arrivò al governo.
“C’era un Renzi che ci piaceva. Molto. Era il Renzi
arrembante all’assalto della nomenklatura politica italiana esemplarmente
rappresentata dalla «Ditta» democrat. Il giovane uomo senza peli sulla lingua
che prometteva aria nuova, idee nuove, facce nuove: e gli si poteva credere dal
momento che era lui innanzi tutto, con il suo modo d’essere, a incarnare ognuna
di queste cose”.
Dunque Galli della Loggia aveva preso per aria nuova le nuvole d’aria fritta che Renzi aveva subito cominciato a produrre e spargere nell’atmosfera; aveva considerato come un fatto positivo l’attacco alla vecchia nomenclatura, senza farsi venire in mente che quell’arrembaggio poteva anche essere animato solo dall’intenzione di sostituire i vecchi con nuovi capi; aveva considerato come nuove (rallegrandosene) le facce inespressive dei politici renziani, che avevano cominciato subito a sbucar fuori dal nulla: persone senza storia e senza studi, a cominciare dal loro eroe eponimo, che parla e si muove, come se stesse al bar, solo per compiacere la grande massa dei poveri telespettatori.
Galli della Loggia,
che è un fine intellettuale, aveva, sin dal primo momento, tutti gli elementi per
capire quanto, nella realtà, fosse vecchia e superficiale la novità costituita
dall’arrivo in politica di Matteo Renzi. Ma ha voluto, contro l’evidenza,
illudersi, o, forse più verosimilmente, ha mostrato di avere grandi speranze nelle
novità promesse da Renzi per poter più facilmente indurre i suoi lettori a coltivare le
stesse illusioni.
Galli della Loggia,
subito dopo aver detto che Renzi era portatore di idee nuove, scrive:
“Certo, si capiva che dietro non aveva molte letture e vattelappesca quali studi, ma questa era roba da Prima Repubblica. Nella seconda bisognava rinunciare a certe fisime. Renzi era essenzialmente uno stile — allora non poteva essere altro — ma appariva uno stile troppo nuovo per non essere garanzia anche di vere novità”.
“Certo, si capiva che dietro non aveva molte letture e vattelappesca quali studi, ma questa era roba da Prima Repubblica. Nella seconda bisognava rinunciare a certe fisime. Renzi era essenzialmente uno stile — allora non poteva essere altro — ma appariva uno stile troppo nuovo per non essere garanzia anche di vere novità”.
Qui Galli della Loggia sta certamente scherzando, in una pausa di gioco dai suoi impegni di studio. Lo stile nuovo di Renzi era solo un modernismo retorico pieno di sentimenti affettati e di atteggiamenti copiati, anzi assorbiti, pari pari dai peggiori programmi televisivi. Che poi quello stile, dopo vent'anni di berlusconismo, apparisse “troppo nuovo per non essere garanzia anche di vere novità” è una povera opinione senza consistenza. Il professor Galli della Loggia, dopo aver difeso, in anni passati, l’antica serietà della scuola e aver firmato il Manifesto in difesa degli studi umanistici, ha voluto dare fiducia a un leader politico che sa essere privo di cultura e indifferente ad essa. E dichiara inoltre che proprio quella incultura trasmette, attraverso una lingua senza peli, tante belle idee nuove. La disinvoltura futuristica del professore, che fa finta di arrendersi alla volgare opinione corrente che il disprezzo della cultura oggi possa essere un valore positivo, nasce dal suo snervato individualismo, che rimane costantemente tiepido, senza mai accendersi, sia nell'entusiamo che nella delusione.
Appena eletto segretario del Partito democratico, nel dicembre 2013, Renzi comincia a spingere il compagno di partito Enrico Letta per costringerlo alle dimissioni da capo del governo e, dopo solo poche settimane, prende finalmente il suo posto.
"A me più che ad altri, o Ateniesi, si addice il comando, e me ne sento degno", disse Alcibiade prima della spedizione militare in Sicilia, che fu rovinosa per Atene. Anche lui, come Renzi, "aveva la smania di comandare" (Tucidide).
"A me più che ad altri, o Ateniesi, si addice il comando, e me ne sento degno", disse Alcibiade prima della spedizione militare in Sicilia, che fu rovinosa per Atene. Anche lui, come Renzi, "aveva la smania di comandare" (Tucidide).
“Cominciò così, scrive Galli della Loggia, il rapido mutamento
del Renzi che ci piaceva nel Renzi della realtà. Che ci piace di meno”.
Molte delle cose che egli rimprovera oggi (aprile 2016) al presidente Renzi sono vecchie di oltre due anni: il carattere accentratore e il temperamento arrogante, le mance agli elettori, la scelta di collaboratori fedelissimi e mediocri.
La delusione del professore è maturata con una estrema lentezza e non è, comunque, definitiva. Egli non dice che Renzi non gli piace più; sussurra solo che gli piace “di meno”. Resta la possibilità che qualche correzione governativa, anche piccola, faccia tornare il professore all’iniziale entusiasmo.
Galli della Loggia
attenua, infatti, le sue critiche ad
personam, allargandole alla difficile situazione politica (mancanza di una
maggioranza parlamentare compatta, un partito democratico riottoso, ecc.) che renderebbe più o meno
necessari, e quindi scusabili, i difetti e gli errori di Renzi. Ma queste giustificazioni sono
fanfaluche che fioriscono solo nella vasta
zona grigia del giornalismo italiano.
Le singole
giuste osservazioni di Galli della Loggia sono già da alcuni anni
patrimonio di un sentimento popolare che sta acquistando sempre più forza e ampiezza. Il professore non
fa che recepire tardivamente queste convinzioni diffuse, cercando di annacquarle e confonderle. Infatti le inserisce in un
discorso artificioso che, secondo me, è del tutto insincero.
“Non era esattamente questo ciò che ci
aspettavamo dal Renzi che ci era piaciuto. Allorché per esempio egli aveva
promesso di «rimettere in moto l’Italia»: cioè, nella nostra mente, di aiutare
il Paese a ritrovare se stesso, il senso smarrito di ciò che esso era stato e
che ancora nel suo intimo era; a immaginare le prospettive possibili del suo
futuro. Ma non solo: anche aiutarlo a far riacquistare vigore all’interesse
pubblico e alle funzioni dello Stato centrale, a spazzare via privilegi e
corporativismi soffocanti, aiutarlo a cancellare il fiume di inefficienze, di
sprechi e di spese inutili che quotidianamente porta soldi nelle tasche dei
furbi togliendole a quelle dei cittadini che furbi non sono. Allorché avevamo
creduto, per l’appunto, che Renzi avesse l’energia e la voglia di cimentarsi
con simili sfide. Certo, sappiamo fin troppo bene che la realtà dei fatti è
necessariamente diversa da quella dei propositi. Ma quel Renzi che ci piaceva,
forse piaceva a Renzi stesso. E oggi, forse, anche lui — mi piace credere — lo
ricorda ogni tanto con un certo rimpianto”.
Insomma, quello che non hanno saputo, o potuto, né fare né progettare Cavour, Garibaldi, Mazzini, Giolitti, De Gasperi, Togliatti, Fanfani & C., il professor Ernesto Galli della Loggia, di professione storico, se lo aspettava da Matteo Renzi, il giovane arrembante di Rignano, di poche letture ma senza peli sulla lingua, vorticoso come una trottola ma capace di elaborare feconde idee nuove.
Nella difficile ora
presente, il vecchio professore rimpiange mestamente il giovane eroe che lo ha deluso, e si compiace di credere che anche l'uomo di governo che quell'eroe è oggi diventato rimpianga "ogni tanto" la propria fulgida giovinezza.
(Basterebbe questo mediocrissimo 'ogni tanto' a dare l'idea di quanto sia stiracchiato e convenzionale tutto il discorso di Galli della Loggia).
(Basterebbe questo mediocrissimo 'ogni tanto' a dare l'idea di quanto sia stiracchiato e convenzionale tutto il discorso di Galli della Loggia).
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