“La più celebre
scuola [forense] era quella di Berito sulle coste della Fenicia... Dopo un
regolare corso di studi, che durava cinque anni, gli studenti si spargevano per
le province in cerca di ricchezze e di onori: né poteva loro mancare una mole
inesauribile di lavoro in un grande impero, già corrotto dalla molteplicità
delle leggi, delle arti e dei vizi.... Nella pratica del foro, quegli uomini
avevano considerato il cavillo come lo strumento della discussione,
interpretando le leggi secondo i dettami del privato interesse, e [quando diventavano
uomini di governo] conservavano le stesse perniciose abitudini nel governo
dello stato.
L’onore di questa
professione liberale è stato sostenuto da molti avvocati antichi e moderni, che
hanno coperto i posti più importanti con grande integrità e sperimentata
saggezza; ma nel declino del diritto romano la normale promozione degli
avvocati a posti di governo era gravida di malanni e di vergogne.
Questa nobile
arte, un tempo sacra eredità dei patrizi [che la esercitavano gratuitamente],
era caduta nelle mani dei liberti e dei plebei, che operando con l’astuzia
anziché col sapere, ne facevano un sordido e pernicioso commercio.
Alcuni di loro si
insinuavano nelle famiglie allo scopo di fomentare divergenze, promuovere liti
e preparare una messe di guadagno per se stessi o i loro colleghi.
Altri, chiusi nel
loro studio, sostenevano la dignità della professione forense fornendo cavilli
ai ricchi clienti per confondere la più patente verità, oppure argomenti per
avvalorare le più ingiuste pretese.
La classe più
splendida e popolare si componeva di quegli avvocati che facevano risuonare il
foro della loro turgida e loquace retorica.
Incuranti della
fama e della giustizia, per la massima parte ci vengono descritti come guide
ignoranti e rapaci, che conducevano i loro clienti per un dedalo di spese, di
dilazioni e delusioni, abbandonandoli dopo lunghi anni quando la loro pazienza
e ricchezza erano quasi esaurite”.
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