venerdì 25 marzo 2016

Tucidide: La guerra del Peloponneso. Arnoldo Mondadori editore, 1963 (3. ed.).




Forse solo a questa età avanzata potevo leggere per conforto l’opera di Tucidide.  Il nostro tempo presente è così antipatico e oltraggioso e il futuro così insicuro, che per trovare uno stato d’animo  normale e sopportare la realtà con un po’ di consapevolezza, bisogna volgersi ai grandi avvenimenti del passato e studiare i loro  elementi eterni: i sentimenti umani, il contrasto degli interessi, il bisogno di sopravvivere.  Ma in queste letture trovo anche un altro genere di piacere, più contingente e personale. Di fronte al pimpante e ridondante presidente del consiglio Matteo Renzi, che fa coincidere il suo avvento al potere con l’inizio, per l’Italia, di una felice epoca di grandi riforme, e che sembra avere così pochi rivali da parere dolorosamente stabile, lo studio del passato aiuta a coltivare la fiducia che “l’ironia della storia”, cioè il suo imprevedibile dinamismo, che ha saputo precipitare nella polvere personaggi ben più consistenti di lui, possa presto rispedirlo nell’anonimato assieme ai suoi sostenitori e simpatizzanti, che con le loro facce insignificanti, le loro smorfie artificiose e le parole arroganti, sembrano, rispetto agli italiani che amo, una sconcertante invasione di alieni.

Tucidide ha la capacità di  comprendere a fondo la successione dei fatti e sa descriverli con sensibile semplicità. Questo  rende la sua opera moderna e avvincente.
All'inizio della guerra, sia a Sparta che ad Atene  c'era un clima di euforia e di entusiasmo.
“Grandi  i progetti da ambo le parti ed era tutto un fervore per la guerra: né ciò fa meraviglia. Tutti gli uomini, infatti, all’inizio si accingono all’opera con slancio maggiore; allora, poi, molti erano i giovani nel Peloponneso e molti pure in Atene i quali, non avendola mai provata, con grande entusiasmo pensavano alla guerra [...] Tutti si facevono un dovere, sia i privati  che le città, di portare il loro  contributo di aiuto, per quanto era possibile, con le parole e con i fatti; pareva ad ognuno che le cose non potessero procedere spedite, se egli stesso non fosse intervenuto...”

Ma dopo appena pochissimi anni (la guerra fra Sparta e Atene durò dal 431 al 404 a. C.), è già tutto cambiato:
“...ma la Guerra, che distrugge l’abbondanza delle cose necessarie alla vita d’ogni giorno, diventa maestra di violenze e conforma alle esigenze del momento le passioni della moltitudine. Le discordie, dunque, straziavano le città [...] Così, a causa delle lotte civili, ogni sorta di perversità allignò nel mondo greco: scomparve, da tutti derisa, la semplicità, della quale più che d’ogni altra cosa s’alimenta l’animo nobile; e assurse a grande importanza un sentimento  di reciproco  odio e l’animo teso dal sospetto... ...Sicché i meno provvisti d’intelletto, per lo più, avevano la meglio. Essi,  infatti, consapevoli della propria inferiorità e dell’intelligenza degli avversari, presi dal timore di venir da questi sopraffatti con l’abilità oratoria, prevenuti e presi di mira insidiosamente dalla loro versatile acutezza d’ingegno, si gettavano temerariamente nell’azione...”

Le situazioni che sono descritte in questi due passi  non sono nuove per noi moderni, perché anche il nostro recente XX secolo  le ha conosciute bene nel corso delle sue guerre.
In queste riflessioni, come in tante altre di cui il libro è molto ricco,  lo storico diventa anche filosofo  e moralista.
Come moralista Tucidide è eccezionalmente moderno. Certe sue massime potrebbero appartenere a La Rochefoucauld. Per esempio, queste:
“L’uomo è per natura portato a disprezzare chi lo blandisce e ad ammirare chi non si dimostra condiscendente”;

“... preferiscono i più aver fama di scaltri, anche se ribaldi,  piuttosto che di malaccorti, essendo onesti: di questo si vergognano, di quella scaltrezza, invece, menano vanto”. 

La traduzione di Luigi Annibaletto, pubblicata nel 1952, mi è piaciuta molto. Gli sono grato e rendo omaggio alla sua memoria. Quella del giovane Piero Sgroi, pubblicata nel 1942, è probabilmente più letterale e fedele al testo, più icastica ed evocativa (Pericle ai cittadini ateniesi: "Ora, dopo avere pianto ciascuno i suoi cari, andate"), ma io preferisco la traduzione piana e discorsiva di Annibaletto ("Ora, dopo aver dato il vostro tributo di pianto ai cari che avete perduto, ritornatevene alle vostre case"). Egli conclude la sua introduzione affermando che l’opera di Tucidide, amara e pessimistica, è tuttavia “un solenne atto di fede nei valori dello spirito”.
E’ l’amore per la verità che attesta la sua fiducia indefettibile nei valori dello spirito.
Proprio all’inizio della sua opera, in polemica con gli storici-poeti e con gli storici-narratori di favole e leggende, Tucidide scrive:
 “... si sarà più vicini alla verità ritenendo le cose tali presso a poco quali  le ho esposte io, piuttosto che prestar fede a quello che cantarono i poeti, soliti ad abbellire e amplificare, o alle composizioni dei logografi le quali hanno maggiore attrattiva per l’orecchio che rispetto per la verità”.

E Tucidide conclude la polemica  con queste meravigliose parole che mostrano una tranquilla e profonda consapevolezza di sé e la sua fiducia nel valore immortale della verità:
“E forse la mia storia riuscirà, a udirla, meno dilettevole perché non vi sono elementi favolosi; ma sarà per me sufficiente  che sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana vicenda, in maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto per l’eternità è stata essa composta, non già da udirsi per il trionfo nella gara d’un giorno”.
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