“L’Agnello”, pubblicato nel
1954, è un antipatico romanzo religioso che ha soltanto i difetti e nessuna qualità de “La
Farisea” (commentato nel post precedente). Di quel romanzo, l'Agnello, a 13 anni di distanza, mette
ancora in scena alcuni personaggi, ormai adulti o invecchiati.
Lo stile del racconto mi ha
fatto pensare agli ultimi film di Luis Buňuel, con dialoghi e scene surreali, pieni di simboli
e di allusioni brevi e oscure a cose e avvenimenti non detti.
I pochi personaggi non si
muovono nel mondo reale della concreta quotidianità, ma in una atmosfera sospesa e rarefatta, dove essi perdono la loro
consistenza umana per diventare dei manichini che parlano in modo gratuito e si
muovono nello spazio chiuso di un teatro. Troppa parte del romanzo è, infatti,
piena di noiose descrizioni di piccoli gesti e movimenti che sono come le ingombranti
didascalie di una pièce.
Il libro ha come epigrafe una
memorabile frase di Simone Weil: “L’amore
infinitamente tenero che mi ha fatto il dono dell’infelicità”; ma nel
racconto di Mauriac non c'è alcuna eco del misticismo concreto di quella grande e nobile ragazza francese, che scriveva con parole quotidiane e appassionate.
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