lunedì 14 marzo 2016

François Mauriac, La Farisea. A. Mondadori, 1952.




Questo romanzo, che si legge con grande diletto e facilità, mi sembra composto di frammenti che non riescono a comporsi in un’opera unitaria e armoniosa e rimangono pertanto frammenti ed episodi sparsi: alcuni bellissimi, altri no.
Nel commento al romanzo giovanile “Adolescenza”, pubblicato su questo Blog il 6 agosto 2015, ho scritto che Mauriac è un grande artista nel rappresentare la vita inquieta degli adolescenti.
Anche in ‘La Farisea’, che è del 1941, quando l’autore aveva 56 anni, la parte che mi sembra più fresca, libera e poetica è quella che descrive i dispiaceri, i giochi, l’amicizia, l’amore e le gelosie dei tre ragazzi che sono protagonisti importanti di questa storia.
Ma il racconto di Mauriac è molto più complesso e ambizioso.
La Farisea, la signora Brigida Pian, è un personaggio disegnato con grande efficacia, a cominciare dal suo aspetto fisico.
“…nonostante il caldo, portava un soggolo con un colletto di trina che la fasciava fino alle orecchie… Aveva gli occhi neri, fermi e duri, ma la bocca sempre sorridente, benché non scoprisse mai i lunghi denti gialli [in altra parte del libro definiti ‘equini’]… Il doppio mento dava all’insieme un carattere maestoso, accentuato dal portamento della testa, dall’andatura e dalla voce timbrata, fatta per il comando. Si capiva che la sua principale vocazione sarebbe stata quella di dirigere un convento”.
Questa 'Maintenon biliosa', anche quando si trova nei momenti più liberi della sua intimità domestica, è descritta da Mauriac con un sarcasmo feroce che, attraverso particolari ripugnanti, la rende odiosa. Per esempio, “La treccia, enorme come un grosso serpente viscido, con la testa legata da un nastro rosso, [che] le scende fino alle reni”.
Ad un certo punto della storia, il personaggio che racconta (uno dei tre ragazzi, figliastro della signore Brigida), dice: “Osservai curiosamente quella creatura imponente, quella grande statua di bronzo la cui ombra aveva coperto la mia infanzia…”.
 E l'altra figliastra della Farisea, che ama in modo del tutto candido un ragazzo, confida al fratello: “Ho paura di lei, Luigi: detesta talmente che qualcuno sia felice!”
Stranamente, nella descrizione morale del personaggio, l’autore trova, invece, frasi che sono meno esasperate e spesso più leggere e umoristiche:
“Brigida scoteva la testa e sospirava: essa vedeva le cose più dall’alto. Vedere le cose più dall’alto possibile era la sua ragione d’essere e la sua gloria”.
Le sue devastanti interferenze nella vita degli altri, sempre naturalmente a ‘fin di bene’, vengono definite così:
“La tendenza di Brigida Pian era di sospingere le anime verso le vette, come diceva lei”.
Smaniosa di comandare e incapace di comprendere e di amare, si abbandona facilmente, però, a “un’ebbrezza di umiltà”, e non le dispiace sentirsi ”misconosciuta e calunniata”, perché così può aggiungere “una maglia al fitto tessuto di perfezione e di merito con cui si avvolgeva interamente e al quale non cessava mai di lavorare”.
Eppure, Mauriac porta un personaggio così duro, arido e pieno di sé, attraverso una serie di avvenimenti drammatici,  a una sorta di purificazione liberatrice.  Ma la rappresentazione di questa maturazione appare forzata e poco convincente; e non perché un tale cambiamento sia in assoluto irrealistico (anche se quei ‘denti gialli e equini’ e quella ‘viscida treccia di serpente’ sembrano già una condanna in perpetuum), ma perché, così com’è descritto, esso appare improvviso e poco fondato, provocato solo da fatti esteriori, a cui non corrisponde nessun problema di coscienza, nessun dubbio morale o aspirazione spirituale già presenti, almeno in forma latente, nell’animo della signora Brigida.
Per la conoscenza che abbiamo di persone del genere, la Farisea ci sorprende, perché non è avida né interessata al denaro, anzi è inaspettatamente prodiga (anche se in modo meschino e ricattatorio); nel romanzo lei ha solo la colpa di perseguire un suo ideale aberrante ed egocentrico di perfezione religiosa. Direi che Mauriac, che ha evidentemente in odio il personaggio fisico, lo ha poi, in un certo senso, voluto idealizzare per rendere possibile il suo pentimento. Ma questa catarsi  non sembra spontanea né convincente sul piano artistico, bensì artificiosamente indotta dalla concezione provvidenzialistica dell’autore.  
Questa pare a me la maggiore ma non la sola incrinatura del romanzo, che è comunque ricco di osservazioni fresche, acute e bellissime. Come questa sulla sorella del narratore:
“Non ho incontrato nessuno al mondo che abbia avuto come Michelina, e sino dai quindici anni, un tale appetito di felicità. Lo si capiva dal suo modo di mordere un frutto avidamente, di sprofondare il naso in fondo a una rosa e dall’abbandono incantato del suo sonno, che talvolta la sorprendeva sull’erba, al mio fianco”.

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