Questo
romanzo, che si legge con grande diletto e facilità, mi sembra composto di
frammenti che non riescono a comporsi in un’opera unitaria e armoniosa e
rimangono pertanto frammenti ed episodi sparsi: alcuni bellissimi, altri no.
Nel
commento al romanzo giovanile “Adolescenza”, pubblicato su questo Blog il 6
agosto 2015, ho scritto che Mauriac è un grande artista nel rappresentare la
vita inquieta degli adolescenti.
Anche in
‘La Farisea’, che è del 1941, quando l’autore aveva 56 anni, la parte che mi
sembra più fresca, libera e poetica è quella che descrive i dispiaceri, i
giochi, l’amicizia, l’amore e le gelosie dei tre ragazzi che sono protagonisti
importanti di questa storia.
Ma il
racconto di Mauriac è molto più complesso e ambizioso.
La
Farisea, la signora Brigida Pian, è un personaggio disegnato con grande
efficacia, a cominciare dal suo aspetto fisico.
“…nonostante il caldo, portava un
soggolo con un colletto di trina che la fasciava fino alle orecchie… Aveva gli
occhi neri, fermi e duri, ma la bocca sempre sorridente, benché non scoprisse
mai i lunghi denti gialli [in altra parte del libro definiti ‘equini’]… Il doppio mento dava all’insieme un carattere maestoso, accentuato dal
portamento della testa, dall’andatura e dalla voce timbrata, fatta per il
comando. Si capiva che la sua principale vocazione sarebbe stata quella di
dirigere un convento”.
Questa 'Maintenon biliosa', anche quando si trova
nei momenti più liberi della sua intimità domestica, è descritta da Mauriac con un
sarcasmo feroce che, attraverso particolari ripugnanti, la rende odiosa. Per esempio, “La treccia, enorme come un grosso serpente
viscido, con la testa legata da un nastro rosso, [che] le scende fino alle reni”.
Ad un
certo punto della storia, il personaggio che racconta (uno dei tre ragazzi, figliastro della
signore Brigida), dice: “Osservai curiosamente quella creatura imponente, quella grande statua
di bronzo la cui ombra aveva coperto la mia infanzia…”.
E l'altra figliastra della Farisea, che ama in modo del tutto candido un ragazzo, confida al fratello: “Ho paura di lei, Luigi: detesta talmente che qualcuno sia felice!”
E l'altra figliastra della Farisea, che ama in modo del tutto candido un ragazzo, confida al fratello: “Ho paura di lei, Luigi: detesta talmente che qualcuno sia felice!”
Stranamente,
nella descrizione morale del personaggio, l’autore trova, invece, frasi che sono meno
esasperate e spesso più leggere e umoristiche:
“Brigida scoteva la testa e
sospirava: essa vedeva le cose più dall’alto. Vedere le cose più dall’alto
possibile era la sua ragione d’essere e la sua gloria”.
Le sue devastanti
interferenze nella vita degli altri, sempre naturalmente a ‘fin di bene’, vengono
definite così:
“La tendenza di Brigida Pian era
di sospingere le anime verso le vette, come diceva lei”.
Smaniosa
di comandare e incapace di comprendere e di amare, si abbandona facilmente,
però, a “un’ebbrezza di umiltà”, e
non le dispiace sentirsi ”misconosciuta
e calunniata”, perché così può aggiungere “una maglia al fitto tessuto di perfezione e di merito con cui si
avvolgeva interamente e al quale non cessava mai di lavorare”.
Eppure, Mauriac
porta un personaggio così duro, arido e pieno di sé, attraverso una serie di avvenimenti
drammatici, a una sorta di purificazione
liberatrice. Ma la rappresentazione di
questa maturazione appare forzata e poco convincente; e non perché un tale cambiamento sia in assoluto irrealistico (anche se quei ‘denti gialli e equini’ e quella ‘viscida
treccia di serpente’ sembrano già una condanna in perpetuum), ma perché, così com’è descritto, esso appare improvviso e poco fondato, provocato
solo da fatti esteriori, a cui non corrisponde nessun problema di coscienza,
nessun dubbio morale o aspirazione spirituale già presenti, almeno in forma
latente, nell’animo della signora Brigida.
Per la conoscenza che abbiamo di persone del genere, la
Farisea ci sorprende, perché non è avida né interessata al denaro, anzi è inaspettatamente prodiga (anche se in modo meschino e ricattatorio); nel romanzo lei ha solo la colpa di perseguire un suo ideale
aberrante ed egocentrico di perfezione religiosa. Direi che Mauriac, che ha evidentemente in odio il personaggio fisico, lo ha poi, in un
certo senso, voluto idealizzare per rendere possibile il suo pentimento. Ma questa
catarsi non sembra spontanea né convincente sul piano artistico, bensì artificiosamente indotta dalla concezione
provvidenzialistica dell’autore.
Questa
pare a me la maggiore ma non la sola incrinatura del romanzo, che è comunque
ricco di osservazioni fresche, acute e bellissime. Come questa sulla sorella
del narratore:
“Non ho incontrato nessuno al
mondo che abbia avuto come Michelina, e sino dai quindici anni, un tale
appetito di felicità. Lo si capiva dal suo modo di mordere un frutto
avidamente, di sprofondare il naso in fondo a una rosa e dall’abbandono
incantato del suo sonno, che talvolta la sorprendeva sull’erba, al mio fianco”.
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