lunedì 7 marzo 2016

Caio Giulio Cesare: La guerra gallica. Biblioteca universale Rizzoli, 2007; La guerra civile. Biblioteca universale Rizzoli, 2007.



Le maggiori qualità di questi Commentari sono la semplicità e la chiarezza. Quando Cesare descrive come venivano costruite le navi per sbarcare in Britannia o le macchine da guerra per assediare una città o le fortificazioni e le trincee per difendere un accampamento, il lettore può seguire e capire.
Sono diventate proverbiali l’insensibilità e la concisione di Cesare nel raccontare le stragi di nemici. “Inseguimenti ed uccisioni di donne e di fanciulli sono narrati come nel più gelido bollettino di guerra, senza una parola di rammarico o di pieta” (C. Marchesi).
Dopo la conquista della città di Avarico, “pieni di ira per la [precedente] strage di Cenabo e le fatiche sostenute durante l’assedio, [i nostril] non risparmiarono né vecchi, né donne, né fanciulli. Di tutti i difensori che ammontavano a circa quarantamila, solo ottocento, quelli che alle prime grida erano fuggiti dalla città,  arrivarono incolumi da Vercingetorige” (De b. g., 7, 28).
Più facondo diventa Cesare quando vuole spiegare i suoi ragionamenti e le sue decisioni, sempre acuti e lungimiranti.
Impegnato, su un fronte lontano, a combattere la coalizione di Galli guidata da Vercingetorige,  “arrivò da lui una deputazione di principi degli Edui [amici dei Romani], a pregarlo di portare aiuto al loro popolo in un momento per esso particolarmente pericoloso”. Si erano formati due partiti in lotta fra loro che minacciavano di far scoppiare una guerra civile.
“Cesare riteneva dannoso  allontanarsi dal nemico con cui stava combattendo, ma non ignorava quante difficoltà di solito derivano dalle discordie e, per evitare che un popolo tanto numeroso e tanto legato ai Romani scendesse alle armi e il partito che si riteneva più debole chiedesse aiuti a Vercingetorige, giudicò di dover prima di tutto sistemare questa questione” (De b. g. 7, 32).
Tutti i commentatori, da Cicerone a Montaigne ai moderni, lodano l’eleganza dello stile di Cesare. Io non sono in grado di giudicare la sua prosa latina. Apprezzo, come ho detto, la chiarezza e la mancanza di enfasi. Mi rammarico, però, che il racconto sia così asciutto. Qualche volta, forzatamente, la concitazione della battaglia diventa appassionante; altre volte il lettore fantasioso può immaginare, solo sulla base delle scarne ma frequenti indicazioni di Cesare, quanto i paesaggi di allora fossero pieni di selve, di paludi e di fiumi impetuosi.
Ne “La Guerra gallica” Cesare sembra stare sopra gli avvenimenti come un dio onnisciente e sereno che risolve ogni problema con sicurezza, senza mai avere esitazioni né dubbi. Ne “La guerra civile”, invece, la sua sicurezza non sembra una condizione data dall’inizio, ma il risultato di un travaglio interiore.
Nei due Commentari ci sono in tutto solo tre sentenze morali o idee generali. Una riguarda la sorte di Pompeo, lo sfortunato avversario di Cesare, ucciso da uomini che in passato erano stati da lui (Pompeo) beneficati: “Nella sventura spesso gli amici diventano nemici”. 
Ciascuna delle altre due sentenze appare, quasi identica, in ambedue le opere.
La prima:
“volentieri gli uomini prestano fede a ciò che desiderano” (De b. g., 3,18);
“crediamo volentieri ciò che desideriamo” (De b. c., 2, 27).
La seconda:
“Molto può la Fortuna in ogni cosa e più ancora nelle imprese militari” (De b. g., 6, 30);
“Ma la fortuna, che è assai potente non solo negli altri casi umani, ma anche soprattutto nella guerra, in pochi istanti produce grandi mutamenti” (De b. c., 3, 68).
Questa scarsa o nulla propensione alla riflessione astratta chiarisce come Cesare fosse un militare, un politico e uno scrittore tutto concreto, tutto pragmatico e calato nei fatti, che conosceva e sapeva capire gli uomini, ma solo pragmaticamente, senza avere la capacità di immedesimarsi in essi. Per questo la sua osservazione sull’amore dei Galli per la libertà è espressa come una frase incidentale detta senza grande convinzione, che diventa perciò  uno stereotipato luogo comune: “d’altra parte tutti gli uomini sono portati dalla natura ad aspirare alla libertà e ad odiare la condizione di schiavitù” (De b. g., 3, 10).
Ed al capo arverno Critognato, che durante la difesa di Alesia vuole esortare i cittadini a resistere a tutti i costi, Cesare fa dire parole fanatiche e povere di ispirazione ideale, che a lui sembra opportuno riportare solo "per la [loro] singolare e nefanda crudeltà” (De b. g., 7, 77).
Invece Tacito, nella “Vita di Agricola”, al comandante calèdone Calgaco, che arringa i suoi soldati prima della battaglia, fa pronunciare un nobile discorso di grande verità e pathos. Le parole di Agricola ai soldati romani, invece, appaiono, al confronto, retoriche e modeste (egli non rifugge nemmeno dall’espediente di calunniare i nemici “svelti a scappare”). 
Sublime grandezza di Tacito che, pur parteggiando per i Romani, sa rappresentare senza deformazioni le ragioni dei nemici! 
Le notizie che Cesare dà sulla vita dei Galli e dei Germani sono, naturalmente,  tutte interessanti. Ne riporto due particolarmente simpatiche, che descrivono usanze ancora vive, fino a settanta o ottant'anni fa, nelle nostre campagne più povere e nei paesi più remoti.
“I Galli hanno l’abitudine di far fermare i viandanti, anche quando questi non ne hanno voglia, e di chiedere loro cosa abbiano sentito dire o abbiano saputo su qualunque argomento; i mercanti vengono circondati sulle piazza dalla folla e devono raccontare da quali regioni vengono e che notizie ne riportino” (De b. g., 4, 5).
“Quando accade qualcosa di grave o di notevole, i Galli usano trasmettersi la notizia attraverso i campi e le regioni con alte grida  che altri sentono e trasmettono successivamente ai vicini” (De b. g., 7, 3).

Nessun commento: