martedì 16 febbraio 2016

Le caste italiane: ceti mollicci con denti di squalo.



Perduta la fiducia nei medici fiorentini, avevo riposto qualche speranza nei medici di una regione che ha fama di essere più progredita. Avevo prenotato, perciò, una visita in un efficiente ospedale di un paese vicino a Bologna, dove ho una casetta di vacanza.
Grazie alle mie nevrosi, sono arrivato nella sala d’aspetto con quasi due ore di anticipo, e sono stato fortunato, perché l’infermiera mi chiama alle 13.30 invece che alle 15.00, che era l’ora stabilita.
Seduto dietro la scrivania c’era un uomo, sui 45 anni, con una faccia scura e massiccia da camionista che mi sorprende. Stavo quasi per chiedergli se il medico fosse proprio lui, ma la sua voce professionale mi ha presto rassicurato.
Dopo aver ascoltato il mio breve racconto, mi prescrive una nuova medicina e delle nuove analisi, che lui prenota, direttamente dal computer sul suo tavolo, presso l’Ospedale Maggiore di Bologna. Dovrò aspettare per una analisi otto mesi e per l’altra undici, ma questo ritardo non posso addebitarlo a lui, che invece ringrazio per la premura. Si diffonde poi in spiegazioni sulle precauzioni che devo avere nel prendere la nuova medicina.
Poi dice una frase scherzosa.
“Dunque lei viene da Firenze, io ho vissuto a lungo a Siena, lavoro a Bologna, e ci incontriamo ora nell’infelice ospedale di questo paese squallido. Mi tocca venirci due volte al mese, come una corvée”.
A me l’ospedale e il paese non sembravano così brutti, però sono stato incoraggiato dalla sua apertura confidenziale.
“Dottore, mi può dare il suo numero di telefono per l’eventualità che abbia bisogno di qualche chiarimento? Le assicuro che non sono un rompiscatole”.
Lui posa la penna, si appoggia allo schienale della sedia e con calma serietà dice:
“Il mio numero di telefono lo do solo ai miei pazienti privati”. Rimango di stucco.
“Allora per lei ci sono malati di serie A e malati di serie B…”.
“No. Per me sono tutti uguali”.
“Non mi sembra”.
“Mi dica lei perché dovrei darle il mio numero di telefono”.
“Ma la dia lei, una risposta, con una mano sulla coscienza. Dipende dallo spirito con cui lei fa il suo lavoro”.
“Io lavoro bene”.
“Mi fa piacere”.
Il dottore continua ad armeggiare con il computer e la stampante.
“Se non dobbiamo vederci più, potrei sapere almeno il suo nome?”
Dice un nome.
“E’ d’origine abruzzese?”.
“No, pugliese”.
Deve sentirsi un po’ in imbarazzo, perché, probabilmente per cercare qualche giustificazione convincente, mi mostra la lista delle visite prenotate.
“Vede, se io dessi a tutti il mio numero di telefono, sarei schiacciato dalle telefonate”.
Io non dico niente, ma penso che un medico coscienzioso dovrebbe lavorare o solo per l’ospedale o solo come dottore privato, e avere una sola categoria di malati.
“Vede,” aggiunge “all’Amministrazione interessa solo che si fornisca una prestazione, ma non le importa della qualità. Guardi: per ogni visita  sono previsti appena dieci minuti…”
Io allargo le braccia, come per dire: “Ecce Homo!”.
Lui continua.
“Mia moglie, che è avvocato, mi dice: quando un malato varca la tua porta, devi dedicargli tutto il tempo che è necessario. E io lo faccio”.
Il dottore vantava come un atteggiamento di supremo civismo, suo e della signora avvocato sua consorte, una disponibilità che è la condizione più elementare per poter assistere un cliente o un malato.
Ma la miseria di questa cultura non mi ha stupito. Mentre il medico continuava a dire qualcosa, io mi perdevo, con la soddisfazione di uno studioso che vede confermata una sua teoria,  dietro all’immagine della coppia tipica del ceto medio meridionale: lui medico e lei avvocato, oppure avvocato lui e medico lei.
Sentivo che una coppia così è un fortino inespugnabile, una ditta blindata, una associazione perfetta, sorda a ogni valore ideale, a ogni scrupolo etico, a ogni idea politica che non garantisca ai suoi membri una indisturbata attività di roditori.

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