Perduta
la fiducia nei medici fiorentini, avevo riposto qualche speranza nei medici di
una regione che ha fama di essere più progredita. Avevo prenotato, perciò, una
visita in un efficiente ospedale di un paese vicino a Bologna, dove ho una
casetta di vacanza.
Grazie
alle mie nevrosi, sono arrivato nella sala d’aspetto con quasi due ore di
anticipo, e sono stato fortunato, perché l’infermiera mi chiama alle 13.30
invece che alle 15.00, che era l’ora stabilita.
Seduto
dietro la scrivania c’era un uomo, sui 45 anni, con una faccia scura e
massiccia da camionista che mi sorprende. Stavo quasi per chiedergli se il
medico fosse proprio lui, ma la sua voce professionale mi ha presto rassicurato.
Dopo
aver ascoltato il mio breve racconto, mi prescrive una nuova medicina e delle
nuove analisi, che lui prenota, direttamente dal computer sul suo tavolo,
presso l’Ospedale Maggiore di Bologna. Dovrò aspettare per una analisi otto
mesi e per l’altra undici, ma questo ritardo non posso addebitarlo a lui, che invece
ringrazio per la premura. Si diffonde poi in spiegazioni sulle precauzioni che
devo avere nel prendere la nuova medicina.
Poi
dice una frase scherzosa.
“Dunque
lei viene da Firenze, io ho vissuto a lungo a Siena, lavoro a Bologna, e ci
incontriamo ora nell’infelice ospedale di questo paese squallido. Mi tocca venirci due
volte al mese, come una corvée”.
A
me l’ospedale e il paese non sembravano così brutti, però sono stato incoraggiato
dalla sua apertura confidenziale.
“Dottore,
mi può dare il suo numero di telefono per l’eventualità che abbia bisogno di
qualche chiarimento? Le assicuro che non sono un rompiscatole”.
Lui
posa la penna, si appoggia allo schienale della sedia e con calma serietà dice:
“Il
mio numero di telefono lo do solo ai miei pazienti privati”. Rimango di stucco.
“Allora
per lei ci sono malati di serie A e malati di serie B…”.
“No.
Per me sono tutti uguali”.
“Non
mi sembra”.
“Mi
dica lei perché dovrei darle il mio numero di telefono”.
“Ma la dia lei, una risposta, con una mano sulla coscienza. Dipende dallo spirito
con cui lei fa il suo lavoro”.
“Io
lavoro bene”.
“Mi
fa piacere”.
Il
dottore continua ad armeggiare con il computer e la stampante.
“Se
non dobbiamo vederci più, potrei sapere almeno il suo nome?”
Dice
un nome.
“E’
d’origine abruzzese?”.
“No,
pugliese”.
Deve
sentirsi un po’ in imbarazzo, perché, probabilmente per cercare qualche
giustificazione convincente, mi mostra la lista delle visite prenotate.
“Vede,
se io dessi a tutti il mio numero di telefono, sarei schiacciato dalle
telefonate”.
Io
non dico niente, ma penso che un medico coscienzioso dovrebbe lavorare o solo
per l’ospedale o solo come dottore privato, e avere una sola categoria di
malati.
“Vede,”
aggiunge “all’Amministrazione interessa solo che si fornisca una prestazione,
ma non le importa della qualità. Guardi: per ogni visita sono previsti appena dieci minuti…”
Io
allargo le braccia, come per dire: “Ecce Homo!”.
Lui
continua.
“Mia
moglie, che è avvocato, mi dice: quando un malato varca la tua porta, devi
dedicargli tutto il tempo che è necessario. E io lo faccio”.
Il dottore vantava come un atteggiamento di supremo civismo, suo e della signora avvocato sua consorte, una disponibilità che è la condizione più elementare per poter assistere un cliente o un malato.
Il dottore vantava come un atteggiamento di supremo civismo, suo e della signora avvocato sua consorte, una disponibilità che è la condizione più elementare per poter assistere un cliente o un malato.
Ma la miseria di questa cultura non mi ha stupito. Mentre il medico continuava a dire qualcosa, io mi perdevo, con la soddisfazione di uno studioso che vede confermata una sua
teoria, dietro all’immagine della coppia tipica del ceto medio
meridionale: lui medico e lei avvocato, oppure avvocato lui e medico lei.
Sentivo
che una coppia così è un fortino inespugnabile, una ditta blindata, una associazione
perfetta, sorda a ogni valore ideale, a ogni scrupolo etico, a
ogni idea politica che non garantisca ai suoi membri una indisturbata attività di roditori.
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