I primi sei libri
degli Annali di Tacito descrivono l’imperatore Tiberio e i suoi 23 anni di
principato, dal 14 al 37 d. C.
Leggendo senza conoscere quasi niente sia di Tacito che di Tiberio, ho avuto l’impressione irresistibile
che il successore di Ottaviano Augusto assomigliasse molto a Giuseppe Stalin.
La sua paura di
essere spodestato da Germanico, suo figlio adottivo, “nelle cui mani stavano tante legioni ed un immenso numero di milizie
ausiliarie alleate e che godeva di grandissimo favore presso il popolo” (Ann.,
p. 15), assomiglia non poco alla
paura e al sospetto che aveva Stalin nei confronti di Trockij, il suo più fiero oppositore. La somiglianza è aumentata dal fatto che Tiberio,
prima allontanò Germanico dalle sue legioni mandandolo in Oriente, poi lo fece
avvelenare, e successivamente distrusse la sua famiglia.
Altre
caratteristiche comuni ai due “imperatori” sono l’arrogante modestia (Ann., p.
16); l’anima segreta e astuta (Ann., pp. 192, 227); “il volto impenetrabile, senza espressione alcuna né di pietà né di
sdegno, tenacemente muto, perché non trasparisse alcun sentimento” (Ann., p.
121); la forza della simulazione e la durezza dell’animo, sempre circospetto e
sospettoso (Ann., p. 244); la ferocia
implacabile (Ann., p. 237); la preferenza per collaboratori mediocri (Ann., p.
61); l’atteggiamento con cui accoglieva spesso i visitatori, “torvo o con un sorriso ipocrita. Sia che
parlasse[ro] , sia che tacesse[ro], delitto era il tacere, delitto il parlare”
(Ann., p. 197).
Chi ha letto il
libro di ricordi del comunista jugoslavo Milovan Gilas “Conversazioni con
Stalin” sa come Stalin non amasse nemmeno che lo si fissasse negli occhi.
Tacito descrive il
carattere di Tiberio da grande artista e da grande moralista eternamente moderno. Ma
non sono soltanto le loro caratteristiche psicologiche che rendono somiglianti
i due “imperatori”.
Anche l’abiezione
morale della società romana assomiglia molto a quella sovietica dei tempi di
Stalin.
“Questo lo spettacolo nefando che offrirono, soprattutto,
quei tempi, quando si videro i senatori più ragguardevoli abbassarsi fino alle
più vergognose delazioni, alcuni apertamente, molti in segreto” (Ann., p. 216).
Alla fine, scrive Tacito, “la forza del terrore aveva spezzato ogni rapporto umano e quanto più infieriva la ferocia crudele, tanto più si ritraeva la pietà” (Ann., p. 224). Parole identiche si possono leggere nell’opera di Solženicyn “Arcipelago Gulag”.
Alla fine, scrive Tacito, “la forza del terrore aveva spezzato ogni rapporto umano e quanto più infieriva la ferocia crudele, tanto più si ritraeva la pietà” (Ann., p. 224). Parole identiche si possono leggere nell’opera di Solženicyn “Arcipelago Gulag”.
Si potrebbero trovare
molti altri punti di contatto fra Tiberio e Stalin: per esempio, gli atti assolutamente
insignificanti che venivano puniti come delitti (Svetonio, p.165); l’eliminazione
fisica di tutti gli amici e consiglieri di cui, nel tempo, Tiberio si era
circondato (Svetonio, p. 164); e, dulcis in fundo, questa frase pronunciata da Ottaviano
Augusto in punto di morte, citata da Svetonio (p. 143), che potrebbe fare pendant con il giudizio su
Stalin espresso da Lenin nel suo testamento:“Povero popolo romano che cadrà sotto mascelle così
lente!”.
Eppure, a dispetto
di Tacito e Svetonio, il grande latinista Concetto Marchesi (1878-1957), giustamente
famoso perché nel novembre del 1943, come rettore dell’Università di Padova,
aveva esortato gli studenti a prendere le armi contro i fascisti, difese sia
Tiberio che Stalin. Nel 1956, dopo il rapporto di Krusciov sui crimini di
Stalin, parlando all’VIII Congresso del Partito comunista, disse:
“Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori
romani, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico
del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”.
Concetto Marchesi,
però, sbagliava di grosso. L’implacabile accusatore di Stalin non è stato il caricaturale
e compromesso Krusciov, bensì il tragico e grande Trockij, che al suo avversario era superiore in tutto e che Marchesi ha ignorato volutamente.
Quanto alla
grandezza di Tiberio, Tacito non disconosce i suoi meriti e le sue qualità. Per
esempio, a p. 151 degli Annali, scrive:
“Si dice che Tiberio, ogni qualvolta usciva dalla
Curia, soleva dire in greco: ‘O uomini pronti soltanto a servire!’. Anche
colui, che pure era nemico della libertà, sentiva il disgusto e lo spregio
verso una così vergognosa sottomissione di servi”.
E a p. 101 fa un’osservazione
di grande importanza che potrebbe valere anche per Stalin:
“Di nulla era tanto preoccupato Tiberio, quanto di vedere sconvolta la pace”.
Ma qui si presenta
il solito volgare dilemma secondo il quale un bicchiere pieno a metà può essere da
alcuni considerato mezzo pieno e da
altri mezzo vuoto.
Chi ha una concezione amministrativa della società e pensa che essa debba essere tutta racchiusa dentro la cornice istituzionale dello Stato, può considerare come mali secondari e magari passeggeri
la mancanza di libertà e il conformismo dilagante. Tacito, invece, oppresso da “questa passiva sopportazione da schiavi”, condanna aspramente quel regime, convinto
che “l’indagare questi avvenimenti e
tramandarne il ricordo potrebbe essere utile, perché pochi sono coloro che
hanno l’accortezza di saper distinguere ciò che è dignitoso ed onesto da ciò
che è brutto e vile” (Ann., p. 179).
Egli vuole
tramandare il ricordo di “esempi degni di
memoria: madri che accompagnarono i figli profughi, mogli che seguirono i
mariti in esilio, parenti audaci, generi costanti nell’affetto e servi
ostinatamente fedeli , persino sotto la tortura. Uomini illustri [che] affrontarono
con forza l’ultima prova” (Storie, p. 13). Di costoro bisogna venerare la
memoria e ricordare sempre le azioni e le parole, e riabbracciare col pensiero
la forma e la figura dell’animo, più che quella del corpo, perché i volti degli uomini e le loro riproduzioni
nel marmo o nel bronzo sono fragili e caduche, mentre la forma dello spirito è eterna
(Vita di Agricola, p. 103).
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