giovedì 11 febbraio 2016

Tacito, Annali. Rizzoli, 1951; Storie. Rizzoli, 1968; Vita di Agricola. Einaudi, 1944. - Svetonio, Vita dei Cesari. Garzanti, 1977.



I primi sei libri degli Annali di Tacito descrivono l’imperatore Tiberio e i suoi 23 anni di principato, dal 14 al 37 d. C.
Leggendo senza conoscere quasi niente sia di Tacito che di Tiberio, ho avuto l’impressione irresistibile che il successore di Ottaviano Augusto assomigliasse molto a Giuseppe Stalin.
La sua paura di essere spodestato da Germanico, suo figlio adottivo, “nelle cui mani stavano tante legioni ed un immenso numero di milizie ausiliarie alleate e che godeva di grandissimo favore presso il popolo” (Ann., p. 15), assomiglia non poco alla paura e al sospetto che aveva Stalin nei confronti di Trockij, il suo più fiero oppositore. La somiglianza è aumentata dal fatto che Tiberio, prima allontanò Germanico dalle sue legioni mandandolo in Oriente, poi lo fece avvelenare, e successivamente distrusse la sua famiglia.
Altre caratteristiche comuni ai due “imperatori” sono l’arrogante modestia (Ann., p. 16); l’anima segreta e astuta (Ann., pp. 192, 227); “il volto impenetrabile, senza espressione alcuna né di pietà né di sdegno, tenacemente muto, perché non trasparisse alcun sentimento” (Ann., p. 121); la forza della simulazione e la durezza dell’animo, sempre circospetto e sospettoso (Ann., p. 244);  la ferocia implacabile (Ann., p. 237); la preferenza per collaboratori mediocri (Ann., p. 61); l’atteggiamento con cui accoglieva spesso i visitatori, “torvo o con un sorriso ipocrita. Sia che parlasse[ro] , sia che tacesse[ro], delitto era il tacere, delitto il parlare” (Ann., p. 197).
Chi ha letto il libro di ricordi del comunista jugoslavo Milovan Gilas “Conversazioni con Stalin” sa come Stalin non amasse nemmeno che lo si fissasse negli occhi.
Tacito descrive il carattere di Tiberio da grande artista e  da grande moralista eternamente moderno. Ma non sono soltanto le loro caratteristiche psicologiche che rendono somiglianti i due “imperatori”.
Anche l’abiezione morale della società romana assomiglia molto a quella sovietica dei tempi di Stalin.
“Questo lo spettacolo nefando che offrirono, soprattutto, quei tempi, quando si videro i senatori più ragguardevoli abbassarsi fino alle più vergognose delazioni, alcuni apertamente, molti in segreto” (Ann., p. 216).
Alla fine, scrive Tacito, “la forza del terrore aveva spezzato ogni rapporto umano e quanto più infieriva la ferocia crudele, tanto più si ritraeva la pietà” (Ann., p. 224). Parole identiche si possono leggere nell’opera di Solženicyn “Arcipelago Gulag”.
Si potrebbero trovare molti altri punti di contatto fra Tiberio e Stalin: per esempio, gli atti assolutamente insignificanti che venivano puniti come delitti (Svetonio, p.165); l’eliminazione fisica di tutti gli amici e consiglieri di cui, nel tempo, Tiberio si era circondato (Svetonio, p. 164); e, dulcis in fundo, questa frase pronunciata da Ottaviano Augusto in punto di morte, citata da Svetonio (p. 143),  che potrebbe fare pendant con il giudizio su Stalin espresso da Lenin nel suo testamento:“Povero popolo romano che cadrà sotto mascelle così lente!”.
Eppure, a dispetto di Tacito e Svetonio, il grande latinista Concetto Marchesi (1878-1957), giustamente famoso perché nel novembre del 1943, come rettore dell’Università di Padova, aveva esortato gli studenti a prendere le armi contro i fascisti, difese sia Tiberio che Stalin. Nel 1956, dopo il rapporto di Krusciov sui crimini di Stalin, parlando all’VIII Congresso del Partito comunista, disse:
“Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori romani, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”.  
Concetto Marchesi, però, sbagliava di grosso. L’implacabile accusatore di Stalin non è stato il caricaturale e compromesso Krusciov, bensì il tragico e grande Trockij, che al suo avversario era superiore in tutto e che Marchesi ha ignorato volutamente.
Quanto alla grandezza di Tiberio, Tacito non disconosce i suoi meriti e le sue qualità. Per esempio, a p. 151 degli Annali, scrive:
“Si dice che Tiberio, ogni qualvolta usciva dalla Curia, soleva dire in greco: ‘O uomini pronti soltanto a servire!’. Anche colui, che pure era nemico della libertà, sentiva il disgusto e lo spregio verso una così vergognosa sottomissione di servi”.
E a p. 101 fa un’osservazione di grande importanza che potrebbe valere anche per  Stalin:
“Di nulla era tanto preoccupato Tiberio,  quanto di vedere sconvolta la pace”.
Ma qui si presenta il solito volgare dilemma secondo il quale un bicchiere pieno a metà può essere da alcuni considerato  mezzo pieno e da altri  mezzo vuoto.
Chi ha una concezione amministrativa della società e pensa che essa debba essere tutta racchiusa dentro la cornice istituzionale dello Stato, può considerare come mali secondari e magari passeggeri la mancanza di libertà e il conformismo dilagante.  Tacito, invece, oppresso da “questa passiva sopportazione da schiavi”, condanna  aspramente quel regime, convinto che “l’indagare questi avvenimenti e tramandarne il ricordo potrebbe essere utile, perché pochi sono coloro che hanno l’accortezza di saper distinguere ciò che è dignitoso ed onesto da ciò che è brutto e vile” (Ann., p. 179).
Egli vuole tramandare il ricordo di “esempi degni di memoria: madri che accompagnarono i figli profughi, mogli che seguirono i mariti in esilio, parenti audaci, generi costanti nell’affetto e servi ostinatamente fedeli , persino sotto la tortura. Uomini illustri  [che] affrontarono con forza l’ultima prova” (Storie, p. 13). Di costoro bisogna venerare la memoria e ricordare sempre le azioni e le parole, e riabbracciare col pensiero la forma e la figura dell’animo, più che quella del corpo, perché  i volti degli uomini e le loro riproduzioni nel marmo o nel bronzo sono fragili e caduche, mentre la forma dello spirito è eterna (Vita di Agricola, p. 103).

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