(18 dicembre 1859)
Nel suo breve
studio sullo stile di Flaubert, Marcel Proust ha scritto di non amare gran che l’autore
di Madame Bovary, pur riconoscendo che è uno scrittore di primissimo piano.
Posso capirlo. I romanzi di Flaubert, e specialmente ‘L’educazione
sentimentale’, hanno una bellezza così sfuggente e quasi inafferrabile, che non
è facile discutere i gusti di chi non li ama (o li ama poco) e dargli completamente torto.
Però
Proust scrive anche: “Quel che stupisce in uno scrittore di tale grandezza è la
mediocrità del suo epistolario”.
Secondo
lui, “ogni grande artista che lasci volentieri affermarsi nei propri libri la
realtà, rinuncia per ciò stesso a lasciarvi comparire una intelligenza, un
giudizio critico da lui ritenuti inferiori al suo genio. Ma tutto quanto non trova
posto nella sua opera trabocca nella sua conversazione, nelle sue lettere.
Quelle di Flaubert non ne lasciano trasparire nulla”. E conclude con una
lapidaria sentenza di condanna: “Ci è impossibile riconoscervi, col Thibaudet,
‘le idee di un cervello di primo ordine’ ”.
Sono sinceramente
sbalordito da questo giudizio, e non so capire le ragioni di tanta severità, o
sordità. Eppure, quando apparve l’articolo di Proust, nel 1920, le lettere già
pubblicate di Flaubert occupavano almeno cinque volumi.
Erano
ancora inedite, è vero, oltre a vari gruppi di lettere, quelle, importantissime,
indirizzate a Louise Colet; ma il Flaubert epistolografo era un uomo espansivo
che apriva il suo cuore e manifestava le sue idee anche con i corrispondenti
occasionali; e la vasta corrispondenza che Proust aveva potuto leggere portava
già un sicuro marchio di eccezionalità.
Mi
sembra evidente che il grande autore della Recherche
ha preso un enorme abbaglio. Dalla
prima all’ultima lettera, dal 1835 al 1880, la coerenza, la passione e la
sincerità di Flaubert trascinano come un torrente di lava, ardente e
ininterrotto. Mi sembra incredibile che proprio Proust, seppur lettore renitente
e antipatizzante, sia rimasto insensibile.
In una
lettera a un amico del 14 agosto 1835, Flaubert appena quattordicenne scrive di
temere il ripristino della censura e la soppressione della libertà di stampa.
“Sì, è una legge che passerà, perché i rappresentanti del popolo sono un
mucchio immondo di venduti. La loro mira è l’interesse, la loro inclinazione
nativa la bassezza, il loro onore è un orgoglio stupido, la loro anima un pugno
di fango”.
E alla
fine ormai della sua carriera artistica, scrivendo a Maupassant il 19 febbraio
1880, pochi mesi prima di morire, Flaubert si dichiarava più che mai convinto
che lo stile è odiato in modo implacabile. “Quando si scrive bene, si ha contro
di sé due nemici: la massa, perché lo stile la costringe a pensare, la obbliga
a uno sforzo; e il governo, perché esso sente che gli scrittori sono una forza
e il potere non ama un altro potere”.
“La
stupidità è connaturata nel potere”, scriverà a un’amica nel 1877.
A
diciassette anni scriveva (24 febbraio 1839): “Se mai prenderò parte attiva al
mondo, sarà come pensatore e come demoralizzatore. Mi limiterò a dire la
verità, ma sarà orribile, crudele e senza veli”.
Si può
non condividere questo atteggiamento, ma è difficile disconoscerne la forza e,
documentata in modo esplicito dalle lettere (oltre che, in modo mediato, dalle
opere), l’inflessibile costanza, mantenuta
lungo tutto l’arco della sua vita.
Nell’ultimo
decennio prima della morte, le lettere diventano un po’ lamentose: Flaubert si
sente oppresso dalla stupidità universale, è stufo “dell’ignobile operaio, dell’inetto
borghese, dell’ottuso contadino e del prete odioso”; si sente solo, senza
affetti.
“La mia
epoca e l’esistenza stessa mi pesano sulle spalle, orribilmente” (alla mamma di
Maupassant, 23 febbraio 1873).
Scrive a
George Sand (28 febbraio 1874):
“Non mi
sono mai sentito più abbandonato, più vuoto e più abbattuto. Quel che mi dite
delle vostre care piccine mi ha sconvolto sin nel profondo dell’anima. Perché
non ho di codeste cose? Eppure, ero nato per tutte le tenerezze! ... Nella mia
giovinezza sono stato vile, ho avuto
paura della vita”.
Nel
1875, ancora a George Sand, scrive:
“Mi
perdo nei miei ricordi d’infanzia come un vecchio…ormai non aspetto altro dalla
vita che una serie di fogli di carta da imbrattare d’inchiostro. Mi sembra di
attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.
Però,
nonostante la solitudine e l’abbattimento, Flaubert non ha mai perduto la tensione morale, la
passione per la bellezza e per la grandezza dello spirito, che a vent’anni gli avevano
fatto scrivere (22 gennaio 1842):
“Amo il
profumo di quelle belle lingue [il latino e il greco]; Tacito è per me simile a
bassorilievi di bronzo, e Omero è bello come il Mediterraneo”.
Tutta la
sua vita è sorretta da questa passione. A 25 anni, parlando della gioia
suscitata dalla lettura dei grandi poeti, scriveva:
“Mi
pareva talvolta che l’entusiasmo che essi mi ispiravano facesse di me un loro
pari e mi facesse salire fino a loro”.
E
ancora:
“Non so
come facciano a vivere coloro che non si trovano dal mattino alla sera in uno
stato estetico”.
E a
cinquant’anni suonati, mentre confessava il proprio disgusto di tutto e
soprattutto della letteratura contemporanea, professava sempre con lo stesso
vigore la propria fede:
“La cosa
più importante in questo mondo è di tenere la propria anima in una regione
superiore, lontano sia dal fango borghese che da quello democratico. Il culto
dell’arte rende orgogliosi. Questa è la mia morale”.
Dopo le
massacranti fatiche della scrittura, dopo
tanti dolori e delusioni, mantiene inalterata
la stessa ferma convinzione:
“Io
credo che il tornire le frasi non conti nulla; ma che scriver bene sia tutto, perché ‘scriver bene significa insieme
sentir bene, pensar bene ed esprimersi bene’ (Buffon). L’ultima cosa dipende,
perciò, dalle altre due, perché per pensare bisogna sentire fortemente, e per
esprimere bisogna pensare…. La parola c’è sempre, quando si possiede l’idea”
(marzo 1876).
Si erano
mai sentiti concetti così semplici e profondi?
Devozione
all’arte e vita morale sono tutt’uno, e restano intrecciati per Flaubert lungo
tutto il corso della sua vita.
“Non è
sufficiente avere dello spirito. Senza il carattere,
le opere d’arte, per quanto si faccia, saranno sempre mediocri; l’onestà è
la prima condizione dell’estetica”. Perché “l’estetica non è altro che una giustizia
superiore”.
Già a 25
anni Flaubert sente quanto sia “angusta, gretta e di una stupidità feroce” l’idea
nazionalistica di patria.
“La
Patria è la terra, l’Universo, le stelle, l’aria, è lo stesso pensiero, cioè l’infinito
che vive nel nostro petto”.
“Non
sono più moderno che antico, più francese che cinese… Sono fratello in Dio di
ogni essere vivente, della giraffa e del coccodrillo come dell’uomo, e
concittadino di tutto ciò che abita nel grande albergo dell’Universo”.
Mi
sembra uno sviluppo naturale (anche se maligno e infelice), provocato da drammatici avvenimenti politici e sociali, il fatto che dal sentimento giovanile di fraternità universale, Flaubert sia arrivato a considerarsi estraneo
e sospetto a tutti i governi e ai suoi stessi compatrioti, che diceva di
detestare, fino a scrivere di non sentirsi più “di questo secolo, né forse di
questo mondo”.
Le critiche
di Flaubert al suffragio universale e a tutti i miti formali della moderna
democrazia parlamentare, io non le
considero reazionarie e non le respingo. Le considero invece un lievito che
purtroppo non è stato efficace e non è servito. Quei miti 'democratici' sono stati più forti e popolari, ma non si può dire che il lievito di quelle idee contrarie sia spento. Oggi, a circa 150 anni di
distanza da quando quelle critiche venivano formulate, possiamo constatare fisicamente a
che cosa si è ridotta la nostra democrazia, perché viviamo in mezzo alle sue rovine: i deputati e i senatori sono scelti dai
segretari di partito ed eletti con i voti controllati da cosche e corporazioni; i partiti,
diventati imprese d’affari, occupano tutti i posti di comando e hanno formato una
casta di politici e amministratori più corrotta avida e pidocchiosa, più impunita ignorante e inetta dell’aristocrazia
dell’ancien régime; la gente viene pilotata dalla televisione e dai grandi
giornali, e addormentata dalla pubblicità, dalla religione del calcio e da
spettacoli ignobili che distruggono l’intelligenza e la sensibilità.
La
profezia di Flaubert si è realizzata pienamente:
“L’istruzione
gratuita e obbligatoria non farà altro che aumentare il numero degli imbecilli”.
E il grido
del grande scrittore, "sempre indignato come San Policarpo", è più che mai attuale: “Un vento di stupidità e di follia
soffia oggi sul mondo. Pochi sono coloro che riescono a tenersi in piedi, saldi
e diritti”.
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