lunedì 21 dicembre 2015

Gustave Flaubert, Correspondance (1869-1880). Paris, Charpentier, 1917. - Lettere a Luisa Colet. Milano, Editoriale Domus, 1945. - Lettere. Torino, Einaudi, 1949. - Gustave Flaubert e Ivan Turgenev, Il Normanno e il Moscovita (Lettere 1863-1880). Milano, Rosellina Archinto, 1987.



Per non vivere, io mi sprofondo nell'arte, come un disperato; mi ubriaco con inchiostro come altri con il vino.
                            (18 dicembre 1859) 



Nel suo breve studio sullo stile di Flaubert, Marcel Proust ha scritto di non amare gran che l’autore di Madame Bovary, pur riconoscendo che è uno scrittore di primissimo piano. Posso capirlo. I romanzi di Flaubert, e specialmente ‘L’educazione sentimentale’, hanno una bellezza così sfuggente e quasi inafferrabile, che non è facile discutere i gusti di chi non li ama (o li ama poco) e  dargli completamente torto.
Però Proust scrive anche: “Quel che stupisce in uno scrittore di tale grandezza è la mediocrità del suo epistolario”.
Secondo lui, “ogni grande artista che lasci volentieri affermarsi nei propri libri la realtà, rinuncia per ciò stesso a lasciarvi comparire una intelligenza, un giudizio critico da lui ritenuti inferiori al suo genio. Ma tutto quanto non trova posto nella sua opera trabocca nella sua conversazione, nelle sue lettere. Quelle di Flaubert non ne lasciano trasparire nulla”. E conclude con una lapidaria sentenza di condanna: “Ci è impossibile riconoscervi, col Thibaudet, ‘le idee di un cervello di primo ordine’ ”.
Sono sinceramente sbalordito da questo giudizio, e non so capire le ragioni di tanta severità, o sordità. Eppure, quando apparve l’articolo di Proust, nel 1920, le lettere già pubblicate di Flaubert occupavano almeno cinque volumi.
Erano ancora inedite, è vero, oltre a vari gruppi di lettere, quelle, importantissime, indirizzate a Louise Colet; ma il Flaubert epistolografo era un uomo espansivo che apriva il suo cuore e manifestava le sue idee anche con i corrispondenti occasionali; e la vasta corrispondenza che Proust aveva potuto leggere portava già un sicuro marchio di eccezionalità.
Mi sembra evidente che il grande autore della Recherche ha preso  un enorme abbaglio. Dalla prima all’ultima lettera, dal 1835 al 1880, la coerenza, la passione e la sincerità di Flaubert trascinano come un torrente di lava, ardente e ininterrotto. Mi sembra incredibile che proprio Proust, seppur lettore renitente e antipatizzante, sia rimasto insensibile.
In una lettera a un amico del 14 agosto 1835, Flaubert appena quattordicenne scrive di temere il ripristino della censura e la soppressione della libertà di stampa. “Sì, è una legge che passerà, perché i rappresentanti del popolo sono un mucchio immondo di venduti. La loro mira è l’interesse, la loro inclinazione nativa la bassezza, il loro onore è un orgoglio stupido, la loro anima un pugno di fango”.
E alla fine ormai della sua carriera artistica, scrivendo a Maupassant il 19 febbraio 1880, pochi mesi prima di morire, Flaubert si dichiarava più che mai convinto che lo stile è odiato in modo implacabile. “Quando si scrive bene, si ha contro di sé due nemici: la massa, perché lo stile la costringe a pensare, la obbliga a uno sforzo; e il governo, perché esso sente che gli scrittori sono una forza e il potere non ama un altro potere”.
“La stupidità è connaturata nel potere”, scriverà a un’amica nel 1877.
A diciassette anni scriveva (24 febbraio 1839): “Se mai prenderò parte attiva al mondo, sarà come pensatore e come demoralizzatore. Mi limiterò a dire la verità, ma sarà orribile, crudele e senza veli”.
Si può non condividere questo atteggiamento, ma è difficile disconoscerne la forza e, documentata in modo esplicito dalle lettere (oltre che, in modo mediato, dalle opere), l’inflessibile  costanza, mantenuta lungo tutto l’arco della sua vita.
Nell’ultimo decennio prima della morte, le lettere diventano un po’ lamentose: Flaubert si sente oppresso dalla stupidità universale, è stufo “dell’ignobile operaio, dell’inetto borghese, dell’ottuso contadino e del prete odioso”; si sente solo, senza affetti.
“La mia epoca e l’esistenza stessa mi pesano sulle spalle, orribilmente” (alla mamma di Maupassant, 23 febbraio 1873).
Scrive a George Sand (28 febbraio 1874):
“Non mi sono mai sentito più abbandonato, più vuoto e più abbattuto. Quel che mi dite delle vostre care piccine mi ha sconvolto sin nel profondo dell’anima. Perché non ho di codeste cose? Eppure, ero nato per tutte le tenerezze! ... Nella mia giovinezza sono stato vile, ho avuto paura della vita”.
Nel 1875, ancora a George Sand, scrive:
“Mi perdo nei miei ricordi d’infanzia come un vecchio…ormai non aspetto altro dalla vita che una serie di fogli di carta da imbrattare d’inchiostro. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.
Però, nonostante la solitudine e l’abbattimento, Flaubert  non ha mai perduto la tensione morale, la passione per la bellezza e per la grandezza dello spirito, che a vent’anni gli avevano fatto scrivere (22 gennaio 1842):
“Amo il profumo di quelle belle lingue [il latino e il greco]; Tacito è per me simile a bassorilievi di bronzo, e Omero è bello come il Mediterraneo”.
Tutta la sua vita è sorretta da questa passione. A 25 anni, parlando della gioia suscitata dalla lettura dei grandi poeti, scriveva:
“Mi pareva talvolta che l’entusiasmo che essi mi ispiravano facesse di me un loro pari e mi facesse salire fino a loro”.
E ancora:
“Non so come facciano a vivere coloro che non si trovano dal mattino alla sera in uno stato estetico”.
E a cinquant’anni suonati, mentre confessava il proprio disgusto di tutto e soprattutto della letteratura contemporanea, professava sempre con lo stesso vigore la propria fede:
“La cosa più importante in questo mondo è di tenere la propria anima in una regione superiore, lontano sia dal fango borghese che da quello democratico. Il culto dell’arte rende orgogliosi. Questa è la mia morale”.
Dopo le massacranti fatiche della scrittura,  dopo tanti dolori e delusioni, mantiene  inalterata la stessa ferma convinzione:
“Io credo che il tornire le frasi non conti nulla; ma che scriver bene sia tutto, perché ‘scriver bene significa insieme sentir bene, pensar bene ed esprimersi bene’ (Buffon). L’ultima cosa dipende, perciò, dalle altre due, perché per pensare bisogna sentire fortemente, e per esprimere bisogna pensare…. La parola c’è sempre, quando si possiede l’idea” (marzo 1876).
Si erano mai sentiti concetti così semplici e profondi?
Devozione all’arte e vita morale sono tutt’uno, e restano intrecciati per Flaubert lungo tutto il corso della sua vita.
“Non è sufficiente avere dello spirito. Senza il carattere, le opere d’arte, per quanto si faccia, saranno sempre mediocri; l’onestà è la prima condizione dell’estetica”.  Perché  “l’estetica non è altro che una giustizia superiore”.
Già a 25 anni Flaubert sente quanto sia “angusta, gretta e di una stupidità feroce” l’idea nazionalistica di patria.
“La Patria è la terra, l’Universo, le stelle, l’aria, è lo stesso pensiero, cioè l’infinito che vive nel nostro petto”.
“Non sono più moderno che antico, più francese che cinese… Sono fratello in Dio di ogni essere vivente, della giraffa e del coccodrillo come dell’uomo, e concittadino di tutto ciò che abita nel grande albergo dell’Universo”.
Mi sembra uno sviluppo naturale (anche se maligno e infelice), provocato da drammatici  avvenimenti politici e sociali, il fatto che dal sentimento giovanile  di fraternità universale,  Flaubert sia arrivato a considerarsi estraneo e sospetto a tutti i governi e ai suoi stessi compatrioti, che diceva di detestare, fino a scrivere di non sentirsi più “di questo secolo, né forse di questo mondo”.
Le critiche di Flaubert al suffragio universale e a tutti i miti formali della moderna democrazia parlamentare,  io non le considero reazionarie e non le respingo. Le considero invece un lievito che purtroppo non è stato efficace e non è servito. Quei miti 'democratici' sono stati più forti e popolari, ma non si può dire che il lievito di quelle idee contrarie sia spento. Oggi, a circa 150 anni di distanza da quando quelle critiche venivano formulate, possiamo constatare fisicamente a che cosa si è ridotta la nostra democrazia, perché viviamo in mezzo alle sue rovine: i  deputati e i senatori sono scelti dai segretari di partito ed eletti con i voti controllati da cosche e corporazioni; i partiti, diventati imprese d’affari, occupano tutti i posti di comando e hanno formato una casta di politici e amministratori più corrotta avida e pidocchiosa, più impunita ignorante e inetta  dell’aristocrazia dell’ancien régime; la gente viene pilotata dalla televisione e dai grandi giornali, e addormentata dalla pubblicità, dalla religione del calcio e da spettacoli ignobili che distruggono l’intelligenza e la sensibilità.
La profezia di Flaubert si è realizzata pienamente:
“L’istruzione gratuita e obbligatoria non farà altro che aumentare il numero degli imbecilli”.
E il grido del grande scrittore, "sempre indignato come San Policarpo", è più che mai attuale: “Un vento di stupidità e di follia soffia oggi sul mondo. Pochi sono coloro che riescono a tenersi in piedi, saldi e diritti”.

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