A differenza delle bellissime lettere dell'Epistolario e dei delicati saggi
critici, la lettura di questo libretto di sole 35 paginette mi è stata abbastanza
difficile. La scrittura di Serra qui è così divagante, così allusiva, con
considerazioni storiche e politiche generali e sintetiche, alternate a momenti di confessione bruciante e
a liriche descrizioni di aspri e desolati paesaggi, che mi sentivo nella
lettura piuttosto disorientato e non riuscivo a trovare il filo conduttore del
suo discorso. Questo Esame di coscienza sembra
un’opera di poesia: tutte le idee diventano immagini. Ma finalmente, verso la
conclusione di questo sfogo appassionato, mi è sembrato di capirne l’intero
significato.
Serra ha già detto che “la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella;
per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati”.
Anche “la
letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa... ma
come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al
punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle
ultime generazioni”. Perché “la guerra ha rivelato dei soldati, non
degli scrittori”.
L’unico beneficio della guerra, forse, “è in se stessa: un sacrificio che si fa, un
dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di
poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa
semplicità”.
Si può essere d’accordo su tutto, fatta eccezione per la
necessità di adempiere un dovere. Certo Serra il primo dovere lo sente verso i
commilitoni, il popolo che combatte, verso ”quelli
che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa,
quando fa soffrire”.
In subordine, impedito dai limiti del suo pensiero
politico di ribellarsi alle istituzioni dello Stato, riconosce anche l'esistenza di un dovere
verso la patria.
“Che l’Italia abbia qualche
cosa da fare; un dovere da compiere e un avvenire da preparare o da assicurare,
qualche cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi confine, sulla sua
strada, lo sappiamo tutti... Ma appunto perché questo problema è essenziale e
sostanziale nella storia, non possiamo credere che si esaurisca con oggi”.
Questo dovere patriottico è il dovere che Serra sente
con più scetticismo, senza passione; lo nomina solo per la completezza del
discorso.
“Hanno detto che l’Italia può
riparare, se anche manchi questa occasione che le è data [la guerra]; la potrà ritrovare. Ma noi
come ripareremo?”.
Il punto è qui: “Questo
momento che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare...
Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno
ce lo dirà, e noi lo sapremo... E sarà inutile dare agli altri la colpa”.
Il punto è proprio questo: Serra non vuole essere solo un
letterato, o meglio ancora: vuole dare realtà e compimento alla sua religione
delle lettere.
“Fra mille milioni di vite,
c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul
margine estremo... e siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di
questo”.
C’è la tempra del moralista in queste parole; c’è il
letterato che vive il suo amore per la letteratura come impegno morale e che,
arrivato ad una situazione estrema, sente di non potersi tirare indietro, per non compiere un gesto
vile di cui si ricorderebbe con vergogna per tutta la vita.
Tutti i giorni della vita trascorsa son passati come
l’acqua fra le dita e hanno portato “a
questo punto [la guerra], in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano
trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. E’ così semplice! Non
siamo asceti né fuori del mondo. Vivere vogliamo e non morire”.
Si può immaginare una determinazione più serena?
Invece Francesco Flora, in un saggio del 1946, trova che “qualcosa di nobilmente disperato è nella sua mente” e che “egli accettava la guerra... come una
sostituzione del suicidio”. Abbagli dovuti a diversità di temperamenti.
E quanta tranquilla modestia c’è in Serra! e che
rifiuto della retorica!
“Non abbiamo paure né
illusioni. Non aspettiamo niente. Sappiamo che il nostro sacrificio non è
indispensabile”.
Questa non è nobile disperazione né ‘un abbandonarsi
docile al ritmo cieco delle cose’, come ha scritto Natalino Sapegno, che,
offuscato dal suo ideologico progressismo, non
ha capito niente. Quella di Serra è invece una religiosità laica che ha fatto
tesoro dell’insegnamento di Carducci, del quale egli ammirava “il sentimento della poesia e dell’arte come
religione umana, come bellezza morale
della vita, principio di civiltà”; e alla cui “esistenza austera di studioso” si inchinava.
Una prova decisiva di quanto sia serena e consapevole la
scelta coraggiosa di Serra è questa: che, dopo essere arrivato a quella scelta variamente argomentando
e dopo averla illustrata come solida conquista spirituale, descrive senza asprezza il paesaggio in cui ora vive
con i suoi soldati, e anzi con toni idilliaci.
“Andare insieme. Uno dopo l’altro
per i sentieri dei monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come
formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti,
nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la
pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna
verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile...”.
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