lunedì 23 novembre 2015

Renato Serra (1884-1915), Esame di coscienza di un letterato. Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994.



A differenza delle bellissime lettere dell'Epistolario e dei delicati saggi critici, la lettura di questo libretto di sole 35 paginette mi è stata abbastanza difficile. La scrittura di Serra qui è così divagante, così allusiva, con considerazioni storiche e politiche generali e sintetiche,  alternate a momenti di confessione bruciante e a liriche descrizioni di aspri e desolati paesaggi, che mi sentivo nella lettura piuttosto disorientato e non riuscivo a trovare il filo conduttore del suo discorso. Questo Esame di coscienza sembra un’opera di poesia: tutte le idee diventano immagini. Ma finalmente, verso la conclusione di questo sfogo appassionato, mi è sembrato di capirne l’intero significato.
Serra ha già detto che “la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati”.
Anche “la letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa... ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni”. Perché  “la guerra ha rivelato dei soldati, non degli scrittori”.
L’unico beneficio della guerra, forse, “è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità”.
Si può essere d’accordo su tutto, fatta eccezione per la necessità di adempiere un dovere. Certo Serra il primo dovere lo sente verso i commilitoni, il popolo che combatte, verso ”quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire”.
In subordine, impedito dai limiti del suo pensiero politico di ribellarsi alle istituzioni dello Stato, riconosce anche l'esistenza di un dovere verso la patria.
“Che l’Italia abbia qualche cosa da fare; un dovere da compiere e un avvenire da preparare o da assicurare, qualche cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi confine, sulla sua strada, lo sappiamo tutti... Ma appunto perché questo problema è essenziale e sostanziale nella storia, non possiamo credere che si esaurisca con oggi”.
Questo dovere patriottico è il dovere che Serra sente con più scetticismo, senza passione; lo nomina solo per la completezza del discorso.
“Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data [la guerra]; la potrà ritrovare. Ma noi come ripareremo?”.
Il punto è qui: “Questo momento che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare... Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà, e noi lo sapremo... E sarà inutile dare agli altri la colpa”.
Il punto è proprio questo: Serra non vuole essere solo un letterato, o meglio ancora: vuole dare realtà e compimento alla sua religione delle lettere.
“Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo... e siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo”.
C’è la tempra del moralista in queste parole; c’è il letterato che vive il suo amore per la letteratura come impegno morale e che, arrivato ad una situazione estrema, sente di non potersi tirare indietro, per non compiere un gesto vile di cui si ricorderebbe con vergogna per tutta la vita.
Tutti i giorni della vita trascorsa son passati come l’acqua fra le dita e hanno portato “a questo punto [la guerra], in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. E’ così semplice! Non siamo asceti né fuori del mondo. Vivere vogliamo e non morire”.
Si può immaginare una determinazione più serena? Invece Francesco Flora, in un saggio del 1946, trova che “qualcosa di nobilmente disperato è nella sua mente” e che “egli accettava la guerra... come una sostituzione del suicidio”. Abbagli dovuti a diversità di temperamenti.
E quanta tranquilla modestia c’è in Serra! e che rifiuto della retorica!
“Non abbiamo paure né illusioni. Non aspettiamo niente. Sappiamo che il nostro sacrificio non è indispensabile”.
Questa non è nobile disperazione né ‘un abbandonarsi docile al ritmo cieco delle cose’, come ha scritto Natalino Sapegno, che, offuscato dal suo ideologico progressismo,  non ha capito niente. Quella di Serra è invece una religiosità laica che ha fatto tesoro dell’insegnamento di Carducci, del quale egli ammirava “il sentimento della poesia e dell’arte come religione  umana, come bellezza morale della vita, principio di civiltà”; e alla cui “esistenza austera di studioso” si inchinava.
Una prova decisiva di quanto sia serena e consapevole la scelta coraggiosa di Serra è questa: che, dopo essere arrivato a quella scelta variamente argomentando e dopo averla illustrata come solida conquista spirituale, descrive senza asprezza il paesaggio in cui ora vive con i suoi soldati, e anzi con toni idilliaci.
“Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri dei monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile...”.

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