sabato 21 novembre 2015

Brevi considerazioni su un aspetto dell'umanesimo di Tolstoj. Da: Lev Tolstoj, Autobiografia dalle lettere. Arnoldo Mondadori, 1954. - Tatiana Tolstoj, Anni con mio padre. Garzanti, 1978.



Il 23 giugno 1955, pochi giorni dopo il suo ottantesimo compleanno e poche settimane prima di morire, Thomas  Mann scriveva a Károly Kerényi, storico delle religioni con il quale corrispondeva da una ventina d’anni, una lettera che terminava così:

“Il 30 spicchiamo il volo per l’Olanda e portiamo con noi qualche centinaio di lettere d’auguri per il compleanno, non ancora aperte; a Nordwijk speriamo di smistarle e di scrivere i nostri ringraziamenti. Il mondo, Dio lo benedica, ha fatto un gran chiasso intorno a me. Le do un consiglio, si guardi bene dal diventare troppo famoso!”

L'ultima lettera di un lungo epistolario, condotto sempre sul piano di un intellettualismo molto raffinato, si conclude in limine mortis con un brano pieno di compiaciuta, anche se dissimulata, vanità e con una battuta che è del tutto coerente, proprio per il suo carattere grossolano, con la cultura artificiosa ed egocentrica profusa in quelle lettere.  
Un’aria completamente diversa si respira nella corrispondenza di Tolstoj.
Ormai scrittore famoso, dieci anni dopo la pubblicazione di ‘Guerra e pace’, scrive a un suo corrispondente che lo lodava:

“Per la verità, quello che dite di me mi è dispiaciuto. Lasciatemi in pace. Non mi piace quando si parla di me, non perché io non sia vanitoso, ma perché so di avere questa debolezza e cerco di correggermi”.

In una lettera del 1891 scriveva:

“Mi è riuscito sgradevole leggere di quell’esagerata importanza che voi attribuite alla mia attività”.

E in una lettera del 1893 parla del suo “vile, non sradicabile vanitoso amor proprio”.
Questa modestia e semplicità non erano frutto di episodici slanci e sforzi della volontà, come forse potrebbero anche sembrare, ma l’espressione costante di una vita interiore ricca e sicura.
Già a ventiquattro anni affermava: “Non vi è nulla al mondo che io tema tanto quanto di diventare un pennaiolo da riviste” .
Nell’agosto del 1857, rientrato in Russia da un soggiorno all’estero, è disgustato dagli “orrori che costituiscono l’eterno ambiente della nostra esistenza [...] La vita in Russia è un eterno travaglio e una lotta contro i propri sentimenti. Per fortuna c’è una salvezza: il mondo interiore, il mondo dell’arte, della poesia, degli affetti. Là nessuno può disturbarmi...me ne sto solo...suono l’andante di Beethoven, piangendo di tenerezza, o leggo l’Iliade o invento per conto mio uomini e donne e vivo con essi”.
L’idea di un mondo interiore in cui potersi raccogliere per proteggersi dalla realtà è già un traguardo superiore alla ricerca del successo, della fama, del consenso della folla.
Ma appena due mesi dopo il ventinovenne Tolstoj ha già superato questa fase e in ottobre scrive alla stessa persona a cui aveva scritto in agosto, la contessa A. A. Tolstaja (una lontana parente a cui era molto affezionato e che chiamava nonna, benché avesse solo 17 anni più di lui), di avere una nuova concezione della vita “che è sorta in me in questi ultimi tempi”. E spiega:
“La felicità è una parola stupida; non è la felicità [il nostro scopo] ma il bene; l’inquietudine disonesta, basata sull’amore di se stessi, è invece l’infelicità... Mi viene da ridere ricordando che m’accadeva di pensare qualche volta... che fosse possible crearsi un nostro piccolo mondo, felice e onesto, in cui vivere per conto nostro, raccolti,  tranquilli, senza errori, senza pentimenti, senza confusione, compiendo con calma, scrupolosamente, solo ciò che è bene. Ridicolaggini. E’ impossibile... Per vivere onestamente bisogna avere degli slanci, bisogna confondersi, dibattersi, errare, cominciare e smettere e ricominciare e smettere di nuovo e lottare di continuo e privarsi di tante cose. La tranquillità è la vigliaccheria dello spirito”.

Un aspetto sostanziale dell’umanesimo di Tolstoj, sincero e onesto, alieno da civetterie, si manifesta nel suo atteggiamento verso la scrittura.

“Scrivere, ossia comunicare agli uomini quelle verità che si conoscono, non può essere un mestiere: è un’opera di altro ordine” (3 novembre 1884).

“Io scrivo soprattutto per me stesso” (22 novembre 1887). Concetto che spiegherà così in una lettera del gennaio 1896:
“La fatica più bella dello scrittore è nello scrivere per chiarire a se stesso un problema. Chiarendo a se stesso, lo chiarisce anche agli altri”.

Qualche anno prima, rispondendo con severa semplicità a un giovane aspirante scrittore, aveva detto:

“Nell’autore del diario non si scorge una ben determinata, limpida visione del mondo, mancano la chiarezza e la forza dell’espressione... Per poter scrivere, occorre aver molto lavorato, avere intensamente concentrato la propria attenzione su un dato fenomeno o su una serie di fenomeni, e ciò vi manca per ora. Divagate continuamente... Quello che importa è di amare un qualche lato della vita, di appassionarsi tanto ad esso da non vedere null’altro all’infuori di quel lato e, per ciò stesso, riuscire a vedervi quello che nessuno vi aveva scorto prima; quindi applicare tutte le forze della propria anima per esprimere nella maniera migliore quello che si vede... Voi scrivete bene e con facilità; ma vi manca quello che distingue certi scritti da tutti gli altri...” (maggio 1894).

 Una bella testimonianza dell’umanità di Tolstoj è in una lettera alla figlia Màša del 23 settembre 1895:

“Non posso scrivere con entusiasmo per i signori, impenetrabili e corazzati come sono della loro filosofia, teologia ed estetica contro ogni verità che esige di essere seguita... E se invece penso di scrivere per gli Afanas’ij, e persino per i Danìlij, Ignatij e i loro sono preso da una grande energia e dalla voglia di scrivere”.

Bisogna ricordare infine che Tolstoj aveva rinunciato ai diritti d’autore sia per i romanzi che per le commedie, impoverendo così la sua famiglia, i figli e i nipoti. Non voleva ricevere denaro in cambio dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti.
La nipote Tatiana Albertini, in qualche pagina aggiunta al bellissimo libro di ricordi scritto dalla mamma, racconta un episodio avvenuto a Parigi:
“Davano un film ricavato da Anna Karenina, con Greta Garbo, in un cinema dei Boulevards. Mia madre, una cugina ed io decidemmo di andarci, ma, arrivate davanti alla cassa del Gaumont-Palace fummo obligate a rinunciarvi perché il prezzo d’entrata superava largamente i nostri mezzi”.
Ma “la mamma non si è mai lamentata né si è rammaricata delle conseguenze derivate dai principi del padre, né  mai ha rimpianto la fortuna che tali diritti avrebbero potuto procurarle”.

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