Il 23 giugno 1955, pochi giorni dopo il suo
ottantesimo compleanno e poche settimane prima di morire, Thomas Mann scriveva a Károly Kerényi, storico delle
religioni con il quale corrispondeva da una ventina d’anni, una lettera che
terminava così:
“Il 30 spicchiamo il volo per
l’Olanda e portiamo con noi qualche centinaio di lettere d’auguri per il
compleanno, non ancora aperte; a Nordwijk speriamo di smistarle e di scrivere i
nostri ringraziamenti. Il mondo, Dio lo benedica, ha fatto un gran chiasso
intorno a me. Le do un consiglio, si guardi bene dal diventare troppo famoso!”
L'ultima lettera di un lungo epistolario, condotto sempre sul piano
di un intellettualismo molto raffinato, si conclude in limine mortis con un brano pieno di compiaciuta, anche se dissimulata, vanità e con una battuta che è del tutto coerente, proprio per
il suo carattere grossolano, con la cultura artificiosa ed egocentrica profusa in
quelle lettere.
Un’aria completamente diversa si respira nella
corrispondenza di Tolstoj.
Ormai scrittore famoso, dieci anni dopo la pubblicazione
di ‘Guerra e pace’, scrive a un suo corrispondente che lo lodava:
“Per la verità, quello che
dite di me mi è dispiaciuto. Lasciatemi in pace. Non mi piace quando si parla
di me, non perché io non sia vanitoso, ma perché so di avere questa debolezza e
cerco di correggermi”.
In una lettera del 1891 scriveva:
“Mi è riuscito sgradevole
leggere di quell’esagerata importanza che voi attribuite alla mia attività”.
E in una lettera del 1893 parla del suo “vile, non sradicabile vanitoso amor
proprio”.
Questa modestia e semplicità non erano frutto di
episodici slanci e sforzi della volontà, come forse potrebbero anche sembrare, ma
l’espressione costante di una vita interiore ricca e sicura.
Già a ventiquattro anni affermava: “Non vi è nulla al mondo che io tema tanto
quanto di diventare un pennaiolo da riviste” .
Nell’agosto del 1857, rientrato in Russia da un
soggiorno all’estero, è disgustato dagli “orrori
che costituiscono l’eterno ambiente della nostra esistenza [...] La vita in
Russia è un eterno travaglio e una lotta contro i propri sentimenti. Per
fortuna c’è una salvezza: il mondo interiore, il mondo dell’arte, della poesia,
degli affetti. Là nessuno può disturbarmi...me ne sto solo...suono l’andante di
Beethoven, piangendo di tenerezza, o leggo l’Iliade o invento per conto mio
uomini e donne e vivo con essi”.
L’idea di un mondo interiore in cui potersi raccogliere
per proteggersi dalla realtà è già un traguardo superiore alla ricerca del successo,
della fama, del consenso della folla.
Ma appena due mesi dopo il ventinovenne Tolstoj ha già
superato questa fase e in ottobre scrive alla stessa persona a cui aveva
scritto in agosto, la contessa A. A. Tolstaja (una lontana parente a cui era
molto affezionato e che chiamava nonna, benché avesse solo 17 anni più di lui),
di avere una nuova concezione della vita “che
è sorta in me in questi ultimi tempi”. E spiega:
“La felicità è una parola
stupida; non è la felicità [il nostro scopo] ma il bene; l’inquietudine disonesta, basata sull’amore di se stessi, è
invece l’infelicità... Mi viene da ridere ricordando che m’accadeva di pensare
qualche volta... che fosse possible crearsi un nostro piccolo mondo, felice e
onesto, in cui vivere per conto nostro, raccolti, tranquilli, senza errori, senza pentimenti,
senza confusione, compiendo con calma, scrupolosamente, solo ciò che è bene.
Ridicolaggini. E’ impossibile... Per vivere onestamente bisogna avere degli
slanci, bisogna confondersi, dibattersi, errare, cominciare e smettere e
ricominciare e smettere di nuovo e lottare di continuo e privarsi di tante
cose. La tranquillità è la vigliaccheria dello spirito”.
Un aspetto sostanziale dell’umanesimo di Tolstoj,
sincero e onesto, alieno da civetterie, si manifesta nel suo atteggiamento
verso la scrittura.
“Scrivere, ossia comunicare
agli uomini quelle verità che si conoscono, non può essere un mestiere: è
un’opera di altro ordine” (3 novembre 1884).
“Io scrivo soprattutto per me
stesso” (22 novembre 1887). Concetto che spiegherà così in una
lettera del gennaio 1896:
“La fatica più bella dello
scrittore è nello scrivere per chiarire a se stesso un problema. Chiarendo a se
stesso, lo chiarisce anche agli altri”.
Qualche anno prima, rispondendo con severa semplicità
a un giovane aspirante scrittore, aveva detto:
“Nell’autore del diario non
si scorge una ben determinata, limpida visione del mondo, mancano la chiarezza
e la forza dell’espressione... Per poter scrivere, occorre aver molto lavorato,
avere intensamente concentrato la propria attenzione su un dato fenomeno o su
una serie di fenomeni, e ciò vi manca per ora. Divagate continuamente... Quello
che importa è di amare un qualche lato della vita, di appassionarsi tanto ad
esso da non vedere null’altro all’infuori di quel lato e, per ciò stesso,
riuscire a vedervi quello che nessuno vi aveva scorto prima; quindi applicare tutte
le forze della propria anima per esprimere nella maniera migliore quello che si
vede... Voi scrivete bene e con facilità; ma vi manca quello che distingue
certi scritti da tutti gli altri...” (maggio 1894).
Una bella
testimonianza dell’umanità di Tolstoj è in una lettera alla figlia Màša del 23
settembre 1895:
“Non posso scrivere con
entusiasmo per i signori, impenetrabili e corazzati come sono della loro
filosofia, teologia ed estetica contro ogni verità che esige di essere
seguita... E se invece penso di scrivere per gli Afanas’ij, e persino per i
Danìlij, Ignatij e i loro sono preso da una grande energia e dalla voglia di
scrivere”.
Bisogna ricordare infine che Tolstoj aveva rinunciato
ai diritti d’autore sia per i romanzi che per le commedie, impoverendo così la
sua famiglia, i figli e i nipoti. Non voleva ricevere denaro in cambio dei suoi
pensieri e dei suoi sentimenti.
La nipote Tatiana Albertini, in qualche pagina
aggiunta al bellissimo libro di ricordi scritto dalla mamma, racconta un
episodio avvenuto a Parigi:
“Davano un film ricavato da
Anna Karenina, con Greta Garbo, in un cinema dei Boulevards. Mia madre, una
cugina ed io decidemmo di andarci, ma, arrivate davanti alla cassa del
Gaumont-Palace fummo obligate a rinunciarvi perché il prezzo d’entrata superava
largamente i nostri mezzi”.
Ma “la mamma non
si è mai lamentata né si è rammaricata delle conseguenze derivate dai principi
del padre, né mai ha rimpianto la
fortuna che tali diritti avrebbero potuto procurarle”.
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