giovedì 17 settembre 2015

George Eliot, Il mulino sulla Floss. Arnoldo Mondadori, 1980.




Anna Luisa Zazo, che ha scritto l’introduzione al romanzo, lo loda con molti argomenti, anche se - scrive - la Eliot “certo non ha la meravigliosa ‘follia’ dickensiana”.
Con delle immagini molto prosaiche, io direi che mentre i romanzi di Dickens assomigliano, piuttosto spesso, a immense torte di pasta sfoglia  farcite con crema, cioccolata e panna, più olive,  capperi, acciughe salate, tonno e uova sode, con l’aggiunta di risciacquature varie, il romanzo della Eliot è invece una compatta,   equilibrata, pulita, solida e soffice crostata. 
Le storie di Maggie Tulliver e della sua famiglia, di Philip Wakem e di altri personaggi minori hanno tutte il tono di verità profonde e commoventi. E la commozione che ispirano non è una partecipazione superficiale ed effimera, quale si può provare per la la sorte di persone viste dall’esterno, ma è una commozione intensamente spirituale, perché la Eliot ha creato dei personaggi in cui noi tutti ci possiamo riconoscere e specchiare.
Questo è possible perché, nonostante che più di un secolo e mezzo ci separi dal tempo dell’azione del romanzo, durante il quale ci sono stati fondamentali cambiamenti nella società e nel costume, la Eliot ha saputo comprendere e descrivere sentimenti essenziali del cuore umano.
Le frequenti riflessioni con le quali l’autrice commenta le azioni dei suoi personaggi, mentre aiutano a penetrarne meglio i moventi,  ne dilatano il significato fino a dimensioni generali, e sono come una cassa di risonanza che approfondisca e amplifichi il suono dei gesti e degli avvenimenti.
La Zazo, in risposta ai critici che considerano gli intermezzi morali del romanzo “come inutile e fastidioso freno al ritmo narrativo”,  ha una immagine molto bella: “... se i commenti rallentano il ritmo narrativo, lo rallentano al modo in cui [...] la costante vita interiore che accompagna la vita esterna rallenta la trama di una vicenda umana”.
Il motivo ispiratore del libro, il suo sentimento fondamentale, è il legame che Maggie Tulliver vuole mantenere con il proprio passato, con i puri affetti dell’infanzia, con i valori di lealtà e di probità dei suoi genitori, con la cara bellezza del paesaggio che la circondava da bambina.
Quel passato non è un mondo da evocare con fantasia nostalgica, ma è l’anima stessa e la coscienza del nostro presente, il contenuto irrinunciabile della nostra vita e della nostra personalità attuali.
Una lunga riflessione della Eliot è il commento più bello e completo per universalizzare quel sentimento, cioè “il linguaggio materno della nostra immaginazione, il linguaggio rimasto in noi con tutte le sottili, inestricabili associazioni che le fuggitive ore dell’infanzia  si son lasciate dietro di loro.
La nostra delizia per questo sole che ride oggi sopra le alte erbe non sarebbe nulla più che una languida  sensazione delle nostre anime stanche, se non ci fossero stati quel  rider di sole e quell’erba degli anni lontani, che ancora vivono in noi, e trasformano la nostra sensazione in amore” (pagine 60 e 61). 
Nel romanzo ho contato, fra grandi e piccoli, venticinque personaggi, compreso il giovane Torry, che appare in due momenti brevissimi. Dopo la “caduta” e il ritorno in paese di Maggie Tulliver, mentre la ragazza cammina per strada, il giovane Torry si stacca da un gruppo di signori fermi sulla porta della sala da biliardo e avanza verso di lei, col monocolo all’occhio,  lanciandole un saluto con l’aria disinvolta con cui ci si rivolgerebbe a una leggera cameriera di caffè. E’ l’unico personaggio (il più piccolo, poi, a parte le sorelle snob di Stephen Guest, che però non entrano mai in scena) che la Eliot tratti con disprezzo. Tutti gli altri, anche quelli descritti con più senso critico, sono considerati con indulgenza, con comprensione, o con umoristico e calmo distacco. L’autrice ci dice che perfino l’avvocato Wakem, che il vecchio Tulliver considerava il proprio persecutore e la rovina della famiglia, non aveva nessuna particolare avversione per il povero mugnaio ed era un normale uomo d’affari che faceva, con realistico egoismo, gli investimenti più redditizi.
Non solo Maggie, la cugina Lucy, l’amico d’infanzia Bob Jakin, la zia paterna Gritty e qualche altro personaggio positivo, ma anche quelli moralmente più lontani da Maggie Tulliver (e dall’autrice) sono piuttosto simpatici; spesso, anzi, sono addirittura apprezzabili e ammirevoli per le loro qualità umane e sociali, seppur limitate e irrigidite. Diversamente dal mondo fantastico di Dickens, qui non ci sono personaggi ripugnanti.
La conversazione, per esempio, delle zie materne di Maggie, che sono di una grettezza e di uno snobismo surreali, procura un così amaro divertimento, che ce le fa guardare, direi, quasi con compassione.
L’unico personaggio che ho trovato veramente antipatico e che credo che la stessa Eliot abbia trattato severamente, forse andando al di là delle sue intenzioni, è Stephen Guest, il giovane bello e ricco che, dopo essersi imposto all’attenzione di Maggie con tanti piccoli  accorgimenti, le  propone, e quasi vorrebbe imporle,  la fuga e il matrimonio. Non che Stephen sia un uomo antipatico in assoluto, ma si dimostra antipatico perché non sa capire il dramma intimo della ragazza, i motivi del suo estremo rifiuto, e quindi rimane escluso dalla comprensione delle sue qualità e chiuso nel proprio edonismo. 
La passione fra Stephen e Maggie è tutta ispirata da un erotismo superficiale, a differenza dell’intimità morale che c’era invece fra lei e Philip, il geniale e deforme figlio dell’avvocato Wakem, che per primo le aveva dichiarato il suo amore.
Stephen è attratto dalla bella figura alta e sicura della ragazza, dal suo sguardo limpido e diritto, dal modo di parlare di una semplicità sconcertante, “senza tutte quelle arie e quelle astuzie piccine delle altre donne”.
Maggie, a sua volta, si lascia sedurre dal bell’aspetto, dalla figura energica, dalla forte e bella voce e, soprattutto, dalla stessa ammirazione che il giovane ha per lei. Altre qualità, Stephen non ne mostra, né mostra di saper apprezzare, al di là della bellezza esteriore, il carattere della ragazza.
La reciprocità dei loro sentimenti rimane perciò in superficie, sia da parte dell’uomo che della donna. Maggie, però, ha il merito di ritrovare presto i propri valori morali, di correggersi e ritirarsi in tempo, perché sente che non può fuggire con Stephen e tradire i suoi principi di lealtà e di fedeltà verso il fratello Tom, verso Lucy, la fidanzata di Stephen, verso Philip.
Nella loro ultima discussione, lunga e drammatica, la donna appare in tutta la sua grandezza; l’uomo invece mostra solo il suo ottuso egoismo; si atteggia a vittima e, con ingiustificabile presunzione, non vuole arrendersi e accettare la decisione di Maggie.
“Stephen tornò a pensare ch’era sul punto di convincerla; finora l’idea di non riuscirvi non gli era neppur passata nella mente”.
E poco prima aveva giocato la carta più vile:
“Dio buono!” gridò alla fine. “Che povera cosa l’amor di donna appetto a quello d’un uomo! Io commetterei dei delitti per voi, e voi ve ne state a pesare ed a scegliere il pro ed il contro. Ma già voi non mi amate; se provaste per me la millesima parte del sentimento  ch’io nutro per voi, non sapreste neppur per un momento pensare a sacrificarvi. Ma che importanza ha per voi di rubarmi tutta la felicità della mia vita?”.
E, alla fine, così interrompe la discussione: “Andate dunque... lasciatemi; non mi torturate più...”.
Parole grosse, che però non possono nascondere che la sua sofferenza è superficiale come il suo amore.
Philip, invece, dopo il ritorno di Maggie in paese, pentita, affranta e calunniata, le scriverà una lettera sublime:
“... nessuna delle angosce che io posso aver sofferte per voi è stata un troppo caro prezzo a paragone  con la nuova vita in cui l’amore per voi mi ha introdotto [...] a dispetto di tutto, voi siete stata la benedizione della mia vita...”.
Per concludere, io non attribuisco alcun valore alla definizione di ‘romanzo femminista’ che si è voluto dare a questo libro della Eliot, la quale ha descritto un grande carattere di donna, suppongo, solo per passione umana e artistica, senza alcuna intenzione di volerlo degradare facendone un manifesto e una bandiera.
La Zazo, che pure insiste nella sua introduzione sul carattere “femminista” del romanzo, ammette che “vedere soltanto questo nel Mulino sulla Floss sarebbe riduttivo e deliberatamente polemico. Né si può escludere che il libro neppure intenda essere ‘anche’ questo”.
Il romanzo, infine, non è soltanto un romanzo di amori desiderati e contrastati, ma è necessariamente, cioè in modo coerente con il suo culto per i valori del passato, anche una descrizione fresca, poetica e veritiera dell’infanzia, dei suoi giochi, dei suoi crucci e dei suoi sogni.

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