Anna Luisa Zazo,
che ha scritto l’introduzione al romanzo, lo loda con molti argomenti, anche se
- scrive - la Eliot “certo non ha la
meravigliosa ‘follia’ dickensiana”.
Con delle immagini
molto prosaiche, io direi che mentre i romanzi di Dickens assomigliano,
piuttosto spesso, a immense torte di pasta sfoglia farcite con crema, cioccolata e panna, più olive, capperi, acciughe salate, tonno e uova sode,
con l’aggiunta di risciacquature varie, il romanzo della Eliot è invece una
compatta, equilibrata, pulita, solida e soffice crostata.
Le storie di Maggie
Tulliver e della sua famiglia, di Philip Wakem e di altri personaggi minori hanno
tutte il tono di verità profonde e commoventi. E la commozione che ispirano non
è una partecipazione superficiale ed effimera, quale si può provare per la la
sorte di persone viste dall’esterno, ma è una commozione intensamente spirituale,
perché la Eliot ha creato dei personaggi in cui noi tutti ci possiamo
riconoscere e specchiare.
Questo è possible
perché, nonostante che più di un secolo e mezzo ci separi dal tempo dell’azione
del romanzo, durante il quale ci sono stati fondamentali cambiamenti nella
società e nel costume, la Eliot ha saputo comprendere e descrivere sentimenti essenziali
del cuore umano.
Le frequenti riflessioni
con le quali l’autrice commenta le azioni dei suoi personaggi, mentre aiutano a
penetrarne meglio i moventi, ne dilatano
il significato fino a dimensioni generali, e sono come una cassa di risonanza
che approfondisca e amplifichi il suono dei gesti e degli avvenimenti.
La Zazo, in
risposta ai critici che considerano gli intermezzi morali del romanzo “come inutile e fastidioso freno al ritmo
narrativo”, ha una immagine molto bella:
“... se i commenti rallentano il ritmo
narrativo, lo rallentano al modo in cui [...] la costante vita interiore che
accompagna la vita esterna rallenta la trama di una vicenda umana”.
Il motivo
ispiratore del libro, il suo sentimento fondamentale, è il legame che Maggie
Tulliver vuole mantenere con il proprio passato, con i puri affetti
dell’infanzia, con i valori di lealtà e di probità dei suoi genitori, con la
cara bellezza del paesaggio che la circondava da bambina.
Quel passato non è
un mondo da evocare con fantasia nostalgica, ma è l’anima stessa e la coscienza
del nostro presente, il contenuto irrinunciabile della nostra vita e della
nostra personalità attuali.
Una lunga riflessione della Eliot è il commento più bello e completo per
universalizzare quel sentimento, cioè “il
linguaggio materno della nostra immaginazione, il linguaggio rimasto in noi con
tutte le sottili, inestricabili associazioni che le fuggitive ore
dell’infanzia si son lasciate dietro di
loro.
La nostra delizia per questo sole che ride oggi sopra
le alte erbe non sarebbe nulla più che una languida sensazione delle nostre anime stanche, se non
ci fossero stati quel rider di sole e
quell’erba degli anni lontani, che ancora vivono in noi, e trasformano la
nostra sensazione in amore” (pagine 60 e 61).
Nel romanzo ho
contato, fra grandi e piccoli, venticinque personaggi, compreso il giovane
Torry, che appare in due momenti brevissimi. Dopo la “caduta” e il ritorno in
paese di Maggie Tulliver, mentre la ragazza cammina per strada, il giovane
Torry si stacca da un gruppo di signori fermi sulla porta della sala da
biliardo e avanza verso di lei, col monocolo all’occhio, lanciandole un saluto con l’aria disinvolta
con cui ci si rivolgerebbe a una leggera cameriera di caffè. E’ l’unico
personaggio (il più piccolo, poi, a parte le sorelle snob di Stephen Guest, che
però non entrano mai in scena) che la Eliot tratti con disprezzo. Tutti gli
altri, anche quelli descritti con più senso critico, sono considerati con
indulgenza, con comprensione, o con umoristico e calmo distacco. L’autrice ci
dice che perfino l’avvocato Wakem, che il vecchio Tulliver considerava il
proprio persecutore e la rovina della famiglia, non aveva nessuna particolare
avversione per il povero mugnaio ed era un normale uomo d’affari che faceva, con
realistico egoismo, gli investimenti più redditizi.
Non solo Maggie,
la cugina Lucy, l’amico d’infanzia Bob Jakin, la zia paterna Gritty e qualche altro
personaggio positivo, ma anche quelli moralmente più lontani da Maggie Tulliver
(e dall’autrice) sono piuttosto simpatici; spesso, anzi, sono addirittura
apprezzabili e ammirevoli per le loro qualità umane e sociali, seppur limitate
e irrigidite. Diversamente dal mondo fantastico di Dickens, qui non ci sono
personaggi ripugnanti.
La conversazione,
per esempio, delle zie materne di Maggie, che sono di una grettezza e di uno
snobismo surreali, procura un così amaro divertimento, che ce le fa guardare,
direi, quasi con compassione.
L’unico
personaggio che ho trovato veramente antipatico e che credo che la stessa Eliot
abbia trattato severamente, forse andando al di là delle sue intenzioni, è
Stephen Guest, il giovane bello e ricco che, dopo essersi imposto
all’attenzione di Maggie con tanti piccoli
accorgimenti, le propone, e quasi
vorrebbe imporle, la fuga e il
matrimonio. Non che Stephen sia un uomo antipatico in assoluto, ma si dimostra
antipatico perché non sa capire il dramma intimo della ragazza, i motivi del
suo estremo rifiuto, e quindi rimane escluso dalla comprensione delle sue
qualità e chiuso nel proprio edonismo.
La passione fra Stephen
e Maggie è tutta ispirata da un erotismo superficiale, a differenza
dell’intimità morale che c’era invece fra lei e Philip, il geniale e deforme
figlio dell’avvocato Wakem, che per primo le aveva dichiarato il suo amore.
Stephen è attratto
dalla bella figura alta e sicura della ragazza, dal suo sguardo limpido e diritto,
dal modo di parlare di una semplicità sconcertante, “senza tutte quelle arie e quelle astuzie piccine delle altre donne”.
Maggie, a sua
volta, si lascia sedurre dal bell’aspetto, dalla figura energica, dalla forte e
bella voce e, soprattutto, dalla stessa ammirazione che il giovane ha per lei.
Altre qualità, Stephen non ne mostra, né mostra di saper apprezzare, al di là
della bellezza esteriore, il carattere della ragazza.
La reciprocità dei
loro sentimenti rimane perciò in superficie, sia da parte dell’uomo che della
donna. Maggie, però, ha il merito di ritrovare presto i propri valori morali,
di correggersi e ritirarsi in tempo, perché sente che non può fuggire con
Stephen e tradire i suoi principi di lealtà e di fedeltà verso il fratello Tom,
verso Lucy, la fidanzata di Stephen, verso Philip.
Nella loro ultima
discussione, lunga e drammatica, la donna appare in tutta la sua grandezza;
l’uomo invece mostra solo il suo ottuso egoismo; si atteggia a vittima e, con ingiustificabile
presunzione, non vuole arrendersi e accettare la decisione di Maggie.
“Stephen tornò a pensare ch’era sul punto di
convincerla; finora l’idea di non riuscirvi non gli era neppur passata nella
mente”.
E poco prima aveva
giocato la carta più vile:
“Dio buono!” gridò alla fine. “Che
povera cosa l’amor di donna appetto a quello d’un uomo! Io commetterei dei
delitti per voi, e voi ve ne state a pesare ed a scegliere il pro ed il contro.
Ma già voi non mi amate; se provaste per me la millesima parte del sentimento ch’io nutro per voi, non sapreste neppur per
un momento pensare a sacrificarvi. Ma che importanza ha per voi di rubarmi
tutta la felicità della mia vita?”.
E, alla fine, così
interrompe la discussione: “Andate
dunque... lasciatemi; non mi torturate più...”.
Parole grosse, che
però non possono nascondere che la sua sofferenza è superficiale come il suo
amore.
Philip, invece,
dopo il ritorno di Maggie in paese, pentita, affranta e calunniata, le scriverà
una lettera sublime:
“... nessuna delle angosce che io posso aver sofferte
per voi è stata un troppo caro prezzo a paragone con la nuova vita in cui l’amore per voi mi
ha introdotto [...] a dispetto di tutto, voi siete stata la benedizione della
mia vita...”.
Per concludere, io
non attribuisco alcun valore alla definizione di ‘romanzo femminista’ che si è
voluto dare a questo libro della Eliot, la quale ha descritto un grande
carattere di donna, suppongo, solo per passione umana e artistica, senza alcuna
intenzione di volerlo degradare facendone un manifesto e una bandiera.
La Zazo, che pure
insiste nella sua introduzione sul carattere “femminista” del romanzo, ammette
che “vedere soltanto questo nel Mulino
sulla Floss sarebbe riduttivo e deliberatamente polemico. Né si può escludere
che il libro neppure intenda essere ‘anche’ questo”.
Il romanzo,
infine, non è soltanto un romanzo di amori desiderati e contrastati, ma è
necessariamente, cioè in modo coerente con il suo culto per i valori del
passato, anche una descrizione fresca, poetica e veritiera dell’infanzia, dei
suoi giochi, dei suoi crucci e dei suoi sogni.
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