Il pensiero della guerra
civile spagnola si è formato in me molto tardi, dopo i vent’anni. Quando ero
ragazzo non ne avevo mai sentito parlare né in famiglia né a scuola. Mio padre
era un comunista di maniera, cioè senza vera passione politica, che veniva dalla retorica fascista e, come
tanti, aveva cambiato bandiera alla fine
della guerra. La scuola, poi, perfino al liceo, era un luogo asettico dal quale
la storia recente e i problemi vivi erano rigorosamente esclusi.
Ricordo che negli
anni Cinquanta (forse nel 1956, ventesimo anniversario dell’inizio del
conflitto) visitai per puro caso una mostra fotografica organizzata dalla
Chiesa per far conoscere gli “orrori” commessi dai repubblicani spagnoli.
Abitavo allora in un quartiere romano di periferia e, spinto dalla nostalgia,
tornavo spesso in centro, in Piazza della Pilotta, dove ero vissuto quasi
felicemente da bambino. Tutti i palazzi della piazza appartenevano al Vaticano,
e in uno di questi, al piano terreno, era stata allestita, appunto, la mostra degli
orrori commessi dai “rossi” spagnoli. La mostra sul momento mi colpì, certo, ma
in me non fece nascere niente, nessuna curiosità, nessun sentimento preciso, e
rimase per anni come un ricordo insignificante.
Passò ancora
parecchio tempo prima che sentissi di nuovo parlare della Spagna, nell’aprile
del 1963, quando il regime di Franco condannò a morte e fucilò l’oppositore
comunista Julián Grimau. Ricordo che perfino il cardinal Giovanni Battista
Montini, che dopo due mesi sarebbe diventato papa, chiese per lui la grazia al
dittatore spagnolo.
Trasferitomi a
Firenze l’anno seguente, scoprii che nell’ambiente studentesco il ricordo della
guerra civile spagnola, a distanza di quasi trent’anni, era un patrimonio
comune che veniva custodito con rispetto e ammirazione. Si cantavano le canzoni
del Fronte popolare, si correva a vedere nei cineclub il documentario di
Frédéric Rossif “Morire a Madrid”, tanti di noi tenevano nel soggiorno di casa una
grande riproduzione del quadro di Picasso “Guernica”.
Quando, due mesi
fa, su una bancarella di un mercatino per una festa di montagna, ho visto
questo libro, anche se non conoscevo Constancia de la Mora, mi è sembrato di
incontrare una persona cara, di ritrovare un amato ricordo di famiglia e ho letto il libro con questo spirito.
Il libro è bello,
scorrevole, appassionato, ma a pagina 513 c’è una grave falsità:
“... i trotskisti che agivano in qualità di agenti di Franco per
mezzo di un partito politico chiamato il POUM erano riusciti ad infiltrarsi in
posti di grande responsabilità”.
Consultando
Internet ho appreso che su Constancia de la Mora pesa il sospetto che sia stata
una agente al servizio del governo sovietico che, si sa, in Spagna fece strage
di anarchici e trockisti.
Lei e il secondo
marito Ignacio Hidalgo de Cisneros, comandante dell’aviazione repubblicana, avevano
fatto un viaggio in Unione Sovietica e, con mia grande sorpresa, avevano
trovato che era tutto bellissimo e che la gente era felice e ben pasciuta
(pagine 561 e 562).
Rafael Alberti dedicò a Constancia de la Mora
una bella poesia che canta la purezza del suo amore e del suo sacrificio per la
Spagna.
Io, combattuto fra
l’ammirazione e il sospetto, sperando che le sue opinioni sbagliate non siano
mai diventate atti infami, riporto i versi del poeta, con il desiderio che essi
dicano tutta la verità.
“Constancia de la Mora, compagna e amica: / tanti anni
sono passati, ma tu sei ancora qui, / qui è la tua vita limpida, il difficile
cammino / coraggioso, leale e puro che tu avevi scelto. /
Tanti anni sono passati, che però non sono passati. /
Tu fai rivivere con te e nel tuo esempio la vera vita di Spagna, / quel popolo
semplice e fiero di cui fosti compagna, / miliziana fino al giorno della tua
inaspettata morte. /
Non fu soggezione a paure oscure / la pena del tuo
cuore nelle ore amare. / Fu amore, speranza cieca, dedizione luminosa, / fino a
cancellare le tracce della tua aristocratica nascita.”
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