lunedì 31 agosto 2015

Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944. Milano, BUR, 2001. - Un bel 'romanzo' di un moralista.




Giuseppe Bottai, arrivato in Etiopia poche settimane prima, così scriveva nel suo diario il 19 dicembre 1935:
Pietro Badoglio “appare già più vecchio negli abiti già un poco sgualciti. Sull’angolo estremo degli occhi, verso le orecchie, gli calano dalle sopracciglia due festoncini di pelle ingiallita. Due piccoli paraocchi. I paraocchi della vecchiaia”.
E alcuni giorni dopo, il 29 dicembre, aggiungeva:
“Il mio pensiero torna spesso a lavorare intorno alla figura del capo attuale dell’impresa: Badoglio. Credo che la spiegazione dell’antipatia profonda, di cui, nonostante gli universali riconoscimenti della sua fortuna e genialità, è circondato, vada ricercata nella volgarità della sua persona fisica. Non vi è in lui nessuna di quelle grazie misteriose che conquidono. Non la sagoma della testa, protuberante sugli occhi; non questi, d’un colore troppo tenero e sbiadito per avvivare uno sguardo comunicativo; non le mani, comuni di taglio; non il corpo, legato e infagottato”.
Chissà come avrebbe definito Bottai la propria faccia! Lui, che come scrittore eccelleva nella capacità di capire il carattere degli uomini che frequentava partendo dai tratti fisici, e di sintetizzarlo, dopo averne descritto vizi e virtù, in una caratteristica corporale, chissà come avrebbe interpretato la propria faccia molle da funzionario!
In quella faccia solo il naso potente e la fronte spaziosa si oppongono allo sguardo liquido, alla bocca carnosa e al piccolo mento.
Non sono (non credo di essere) un rozzo determinista che legge nella conformazione materiale del corpo la storia di un individuo, tuttavia, proprio seguendo l’esempio artistico e morale di Bottai, conoscitore di uomini, non so resistere alla tentazione di vedere nel suo viso sia il sentimentalismo che lo portò all’infatuazione vitalistica per la guerra e per il Capo, sia la riflessione calma che l’aiutò, sebbene tardi, a emanciparsene.
Ricordando i dibattiti e gli scontri politici che decisero l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra (a cui partecipò come volontario), Bottai scrive il 29 marzo 1936:
La guerra “non si giustificava da fuori. Era in me. In primavera, al disgelo delle nevi, avrei mosso alla guerra, com’a un fatto di stagione. Da tutta la mia vita - diciannove anni di vita – un poco grigia, chiusa, angosciata da solitudini e da persecuzioni immaginarie, quella primavera in rigoglio sarebbe scoppiata e la guerra con lei. La guerra, sua linfa, sua corolla, suo fiore […] La guerra mi à sempre preso dal di dentro di me. Mai dal di fuori”.
E qualche mese prima aveva scritto:
“Io ‘volli’ la guerra, perché dal mio sangue si sprigionava una forza, che urgeva verso la guerra […] La guerra era un ‘fatto’ del mio fisico, prima ancora d’essere un’idea della mia mente. Anche quando, dopo, la lotta e il pensiero politico me ne svelarono le leggi e le ragioni ideali, ò sempre sentito, di fronte a ogni eventualità di guerra, agire, prima ancora che il mio cervello, quell’istinto; scatenarsi in me quel balzo di tutto il mio essere. Che è quello che m’à lanciato e mi tiene qui [in Etiopia, 1935]” (pag. 38).
Queste parole, dette oggi da una persona sensibile e colta come Bottai, sarebbero una coraggiosa autocritica oppure una professione di fede molto temeraria. Allora però, ottanta anni fa, nel cuore di una dittatura impregnata di retorica e di velleitarismo, quelle frasi esprimevano la cultura corrente e, come queste che seguono, rivelavano un volontarismo e un esibizionismo senza dubbio sentiti e sinceri, ma privi di concreta realtà e di responsabilità:
“M’accade spesso, quando il vivere cotidiano mi delude, mi mortifica, mi stanca, che la mia immaginazione si mette in moto, rivelandomi prospettive d’un avvenire migliore. E’ una forza poetica che mi viene in soccorso. Una poesia che non c’è bisogno di scrivere. Non voglio aver paura d’adoperare una frase fatta: una poesia vissuta. Poesia vissuta è stata per me tutta la mia partecipazione al movimento fascista […] Poesia da vivere è questa guerra [d’Etiopia. Bottai ha già quarant’anni]. Sono venuto qua ‘senza nessun motivo’. Per pura volontà […] Volontà di essere dentro questa ‘cosa’, che è nella sua materialità una guerra” (pag. 53).
Questo bel diario documenta in modo estremamente onesto e accorato lo sviluppo morale, intellettuale e politico di Bottai. La sua importanza è nella continua riflessione che l’autore fa su se stesso e sulle vicende e i personaggi che lo circondano. Si può pensare con una certa irritazione che, in mezzo ad avvenimenti sconvolgenti, quello sviluppo sia stato troppo lento. Lo stesso Bottai lo riconobbe, scrivendo al figlio Bruno nell’aprile 1944:
“La verità avrebbe voluto altro da me: il rifiuto netto, duro, preciso. Non l’ho fatto […] Errore, irreparabile errore” (pag.527).
Forse, però, proprio la lentezza di quella presa di coscienza, anche se inefficace sul piano politico, ha reso il cambiamento morale e intellettuale più ampio e sincero.
Ancora il 20 gennaio 1941, a quarantacinque anni suonati e dopo avvenimenti politici già molto drammatici, Bottai, gravemente deluso e offeso da Mussolini, scriveva:
“Un Capo è tutto nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce. Vorrei ritrovarlo il Capo, rimetterlo al centro del mio mondo, riordinarlo, questo mio mondo, intorno a lui. Ò paura, paura che questo non mi riesca più”.
Poi, però, a metà del 1943, quel cambiamento  precipita di colpo e già nell’ottobre, scrivendo alla moglie dal nascondiglio dove si era rifugiato, Bottai afferma:
“I giovani hanno diritto di non fidarsi di noi […] Bisogna ritirarsi, ritirarsi con dignità”.
La raggiunta consapevolezza dei suoi errori, commessi per eccesso di fiducia e di idealismo e non per avida adulazione, gli dà una serenità interiore che spesso gli detta delle profonde osservazioni morali:
“La morte, che di minaccia potenziale s’è fatta giuridicamente precisa, opera in me secondo la sua virtù, che è pacificatrice. Cerco di non opporle, nell’intima coscienza, alcuna resistenza […] l’approssimarsi della morte infonde in noi una più alta intelligenza della vita”.
Ma il moralista ironico e sdegnoso (e qualche volta commosso) è sempre vivo e presente in lui, anche quando si dichiarava fedelissimo a Mussolini, e ispira la grande arte dei suoi tanti ritratti, tra i quali sono memorabili quelli di Italo Balbo, di Guido Buffarini Guidi, di Ettore Muti, di Galeazzo Ciano e di molti altri, oltre alle tante osservazioni sul carattere, la cultura, il modo di parlare e perfino di camminare di Mussolini, il grande Capo.
Poiché non conosco gli altri scritti di Bottai, mi limito ad esprimere l’impressione che il suo approdo politico-morale, pur molto lontano dal vitalismo e patriottismo bellicoso della sua gioventù e maturità, abbia con quelli una certa coerenza e continuità, abbia, cioè,  - come quelli - un contenuto irrazionale e mistico, che, certo, è temperato da una più attenta valutazione delle condizioni concrete della realtà, è più rispettoso della dignità di ogni singolo uomo e più apertamente  critico verso tutte le autorità, ma che è pur sempre - mi pare - di un soggettivismo assoluto. Spiego così, per esempio, il suo arruolamento nel 1944, a cinquant’anni, nella Legione Straniera, “per espiare”.

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