Giuseppe
Bottai, arrivato in Etiopia poche settimane prima, così scriveva nel suo diario
il 19 dicembre 1935:
Pietro
Badoglio “appare già più vecchio negli
abiti già un poco sgualciti. Sull’angolo estremo degli occhi, verso le
orecchie, gli calano dalle sopracciglia due festoncini di pelle ingiallita. Due
piccoli paraocchi. I paraocchi della vecchiaia”.
E
alcuni giorni dopo, il 29 dicembre, aggiungeva:
“Il mio pensiero
torna spesso a lavorare intorno alla figura del capo attuale dell’impresa:
Badoglio. Credo che la spiegazione dell’antipatia profonda, di cui, nonostante
gli universali riconoscimenti della sua fortuna e genialità, è circondato, vada
ricercata nella volgarità della sua persona fisica. Non vi è in lui nessuna di
quelle grazie misteriose che conquidono. Non la sagoma della testa,
protuberante sugli occhi; non questi, d’un colore troppo tenero e sbiadito per
avvivare uno sguardo comunicativo; non le mani, comuni di taglio; non il corpo,
legato e infagottato”.
Chissà
come avrebbe definito Bottai la propria faccia! Lui, che come scrittore
eccelleva nella capacità di capire il carattere degli uomini che frequentava partendo
dai tratti fisici, e di sintetizzarlo, dopo averne descritto vizi e virtù, in
una caratteristica corporale, chissà come avrebbe interpretato la propria
faccia molle da funzionario!
In
quella faccia solo il naso potente e la fronte spaziosa si oppongono allo sguardo
liquido, alla bocca carnosa e al piccolo mento.
Non
sono (non credo di essere) un rozzo determinista che legge nella conformazione
materiale del corpo la storia di un individuo, tuttavia, proprio seguendo
l’esempio artistico e morale di Bottai, conoscitore di uomini, non so resistere
alla tentazione di vedere nel suo viso sia il sentimentalismo che lo portò
all’infatuazione vitalistica per la guerra e per il Capo, sia la riflessione
calma che l’aiutò, sebbene tardi, a emanciparsene.
Ricordando
i dibattiti e gli scontri politici che decisero l’entrata dell’Italia nella
Grande Guerra (a cui partecipò come volontario), Bottai scrive il 29 marzo
1936:
La
guerra “non si giustificava da fuori. Era
in me. In primavera, al disgelo delle nevi, avrei mosso alla guerra, com’a un
fatto di stagione. Da tutta la mia vita - diciannove anni di vita – un poco
grigia, chiusa, angosciata da solitudini e da persecuzioni immaginarie, quella
primavera in rigoglio sarebbe scoppiata e la guerra con lei. La guerra, sua linfa,
sua corolla, suo fiore […] La guerra mi à sempre preso dal di dentro di me. Mai
dal di fuori”.
E
qualche mese prima aveva scritto:
“Io ‘volli’ la
guerra, perché dal mio sangue si sprigionava una forza, che urgeva verso la
guerra […] La guerra era un ‘fatto’ del mio fisico, prima ancora d’essere
un’idea della mia mente. Anche quando, dopo, la lotta e il pensiero politico me
ne svelarono le leggi e le ragioni ideali, ò sempre sentito, di fronte a ogni
eventualità di guerra, agire, prima ancora che il mio cervello, quell’istinto;
scatenarsi in me quel balzo di tutto il mio essere. Che è quello che m’à
lanciato e mi tiene qui [in Etiopia, 1935]” (pag. 38).
Queste
parole, dette oggi da una persona sensibile e colta come Bottai, sarebbero una
coraggiosa autocritica oppure una professione di fede molto temeraria. Allora
però, ottanta anni fa, nel cuore di una dittatura impregnata di retorica e di velleitarismo,
quelle frasi esprimevano la cultura corrente e, come queste che seguono, rivelavano
un volontarismo e un esibizionismo senza dubbio sentiti e sinceri, ma privi di
concreta realtà e di responsabilità:
“M’accade
spesso, quando il vivere cotidiano mi delude, mi mortifica, mi stanca, che la
mia immaginazione si mette in moto, rivelandomi prospettive d’un avvenire
migliore. E’ una forza poetica che mi viene in soccorso. Una poesia che non c’è
bisogno di scrivere. Non voglio aver paura d’adoperare una frase fatta: una
poesia vissuta. Poesia vissuta è stata per me tutta la mia partecipazione al
movimento fascista […] Poesia da vivere è questa guerra [d’Etiopia.
Bottai ha già quarant’anni]. Sono venuto
qua ‘senza nessun motivo’. Per pura volontà […] Volontà di essere dentro questa ‘cosa’, che è nella sua materialità una
guerra” (pag. 53).
Questo
bel diario documenta in modo estremamente onesto e accorato lo sviluppo morale,
intellettuale e politico di Bottai. La sua importanza è nella continua
riflessione che l’autore fa su se stesso e sulle vicende e i personaggi che lo
circondano. Si può pensare con una certa irritazione che, in mezzo ad
avvenimenti sconvolgenti, quello sviluppo sia stato troppo lento. Lo stesso
Bottai lo riconobbe, scrivendo al figlio Bruno nell’aprile 1944:
“La verità
avrebbe voluto altro da me: il rifiuto netto, duro, preciso. Non l’ho fatto […]
Errore, irreparabile errore” (pag.527).
Forse,
però, proprio la lentezza di quella presa di coscienza, anche se inefficace sul
piano politico, ha reso il cambiamento morale e intellettuale più ampio e
sincero.
Ancora
il 20 gennaio 1941, a quarantacinque anni suonati e dopo avvenimenti politici già
molto drammatici, Bottai, gravemente deluso e offeso da Mussolini, scriveva:
“Un Capo è tutto
nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e
traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce. Vorrei ritrovarlo il
Capo, rimetterlo al centro del mio mondo, riordinarlo, questo mio mondo,
intorno a lui. Ò paura, paura che questo non mi riesca più”.
Poi,
però, a metà del 1943, quel cambiamento
precipita di colpo e già nell’ottobre, scrivendo alla moglie dal
nascondiglio dove si era rifugiato, Bottai afferma:
“I giovani hanno
diritto di non fidarsi di noi […] Bisogna ritirarsi, ritirarsi con dignità”.
La
raggiunta consapevolezza dei suoi errori, commessi per eccesso di fiducia e di
idealismo e non per avida adulazione, gli dà una serenità interiore che spesso gli
detta delle profonde osservazioni morali:
“La morte, che
di minaccia potenziale s’è fatta giuridicamente precisa, opera in me secondo la
sua virtù, che è pacificatrice. Cerco di non opporle, nell’intima coscienza,
alcuna resistenza […] l’approssimarsi della morte infonde in noi una più alta
intelligenza della vita”.
Ma
il moralista ironico e sdegnoso (e qualche volta commosso) è sempre vivo e
presente in lui, anche quando si dichiarava fedelissimo a Mussolini, e ispira
la grande arte dei suoi tanti ritratti, tra i quali sono memorabili quelli di
Italo Balbo, di Guido Buffarini Guidi, di Ettore Muti, di Galeazzo Ciano e di
molti altri, oltre alle tante osservazioni sul carattere, la cultura, il modo
di parlare e perfino di camminare di Mussolini, il grande Capo.
Poiché
non conosco gli altri scritti di Bottai, mi limito ad esprimere l’impressione
che il suo approdo politico-morale, pur molto lontano dal vitalismo e
patriottismo bellicoso della sua gioventù e maturità, abbia con quelli una
certa coerenza e continuità, abbia, cioè, - come quelli - un contenuto irrazionale e
mistico, che, certo, è temperato da una più attenta valutazione delle
condizioni concrete della realtà, è più rispettoso della dignità di ogni
singolo uomo e più apertamente critico
verso tutte le autorità, ma che è pur sempre - mi pare - di un soggettivismo
assoluto. Spiego così, per esempio, il suo arruolamento nel 1944, a
cinquant’anni, nella Legione Straniera, “per espiare”.
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