Solo pochi mesi fa ho saputo che Corrado Alvaro, durante l’occupazione tedesca di Roma,
si era rifugiato a Chieti sotto falso nome e si guadagnava la vita dando
lezioni d’inglese.
Io, che
ricordo Chieti da bambino, ho avuto piacere di pensare che un grande scrittore
ha camminato per le strade di quella cittadina, che nella mia memoria è rimasta così particolare, isolata e favolosa.
Scopro
adesso nel libro di Bucciante, nativo di Chieti, che Corrado Alvaro aveva
passato quel periodo, durante la lunga attesa della liberazione, proprio nella
sua casa abruzzese.
Il libro
di Bucciante è importante perché documenta nei dettagli la disorganizzazione dell’esercito
e la sua organica impreparazione (“un esercito di accattoni”, pag. 359), l’incompetenza,
la sciocca ambizione, l’invidia e l’odio di ciascun generale per tutti i colleghi, il loro servilismo assoluto e
la conseguente mancanza di senso di responsabilità e, infine, il
pressappochismo, la vanità, l’inconsistenza dei politici. A cominciare da ‘lui’,
Mussolini, “con quel suo tono da Zeus” (pag 349).
Il 6
giugno del 1940, a pochi giorni dall’entrata in guerra, il Duce dichiara a un
collaboratore: “Se dovessi aspettare di avere l’esercito pronto, dovrei entrare
in guerra fra anni, mentre invece devo entrare subito. Faremo quello che potremo”, perché “non si doveva disertare la
storia” (febbraio 1940, pag. 319). Fu molto più lungimirante e profetico un contadino abruzzese che in quei giorni disse all'autore del libro: "Sta guerre s'ha da fà e s'ha da perde".
Ma
queste sono ormai cose arcinote.
A me
preme affermare che quel modo di amministrare e di governare è rimasto vivo ed
è praticato ancora oggi, dopo essere passato indenne attraverso la guerra di
liberazione e sette decenni di vita repubblicana. Quel tipo di uomini politici
e di amministratori non è per niente estinto. Anzi si sono moltiplicati e, se
possibile, sono diventati ancora più rapaci e irresponsabili. Non c’è stata una
guerra a rivelare in modo traumatico e inoppugnabile quanto la sottocultura
politica e la mala amministrazione del periodo fascista continuino ancora oggi,
ma i segnali sono numerosi, le situazioni critiche diventano drammatiche, e la
somma dei loro effetti sarà devastante quanto una guerra. Parlo del totale fallimento
dell’ordinamento regionale, che fu introdotto più di 40 anni fa come un toccasana
della democrazia; l’adozione della moneta unica europea, che ci porterà a un disastro
economico; il modo irresponsabile (buonista e cinico) con cui viene affrontato
il problema dell’immigrazione; ecc.
Bucciante,
da storico serio fedele al suo tema, non dice niente sul dopoguerra e sugli anni
successivi (è morto nel 1991 a 84 anni). Ma in più punti sostiene che l’esercito
fascista è stato l’erede dell’esercito piemontese.
A pag.
144 Bucciante, parlando del maresciallo De Bono, scrive: “Pensammo al libro di
De Amicis in cui i racconti della vita militare ci accompagnarono nell’infanzia
per educarci all’amor di patria: un amore come l’olio di fegato di merluzzo che
si usava allora per irrobustire i bambini. Il maresciallo era rimasto, malgrado
la guerra, a quell’esercito di guarnigione della piccola Italia divisa tra la
caserma e il ‘campo’, tra uno squillo di tromba e il ‘tamburino sardo’ che spia
l’arrivo degli austriaci stando in cima ad un albero. Questi erano i generali di Mussolini”.
E a pag.
295 Bucciante scrive più distesamente: “Nel ricostruire il comando supremo,
Badoglio non aveva dimenticato di ricordare (stupefacente ammissione da parte
di chi era da quindici anni capo di stato maggiore generale) che l’alto comando
era ‘pieno di attriti’ e di non mai definite precisazioni di funzioni. Un male
cronico che era già stato denunciato dal generale Capello che nel 1920 accusava
di inettitudine l’alta gerarchia militare e in particolare lo stato maggiore “impersonato
per una troppo lunga serie di anni in qualche personaggio di carta pesta”. E
proseguiva: “Si giunse alla vigilia del conflitto, senza i mezzi, con una
preparazione tecnica acquisita senza convinzione nella cosiddetta Scuola di
Guerra, ispirata a metodi di formalistica antiquata, con imparaticci copiati
straccamente dall’estero e specialmente dalla Germania. […] Nei più alti
comandi, la più bolsa retorica tenne il posto dell’apostolato, le più basse
manifestazioni del gesuitismo metodico e meschino tennero il posto della
dedizione generosa. […] Nell’esercito, per una lunga serie di anni, s’insinuò
tra i buoni e i valenti una gelda di carrieristi e di individui senza alcuna
capacità e senza fede, aridi, egoisti, incapaci mentalmente, mancipi degli
uomini politici, schiene pieghevoli, impiegati…”.
Sembra
che il generale Capello parli dell’oggi. Solo che oggi non si vedono “i buoni e
i valenti”.
Insomma:
la storia non fa salti. Il periodo fascista è stato un lungo ponte che ha
trasportato il pressapochismo sabàudo (leggete Carlo Cattaneo: il re Carlo Alberto
andava in guerra senza le carte militari!) e la corruzione dell'Italia monarchica a
incistarsi e crescere ben dentro la nostra Italia repubblicana.
Con
buona pace di Corrado Augias e di Lucio Villari, cantori felici del tempo presente e del tempo passato.
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