martedì 11 agosto 2015

Giuseppe Bucciante, I generali della dittatura. Mondadori, 1987. - Il passato che non passa.



Solo pochi mesi fa ho saputo che Corrado Alvaro, durante l’occupazione tedesca di Roma, si era rifugiato a Chieti sotto falso nome e si guadagnava la vita dando lezioni d’inglese.
Io, che ricordo Chieti da bambino, ho avuto piacere di pensare che un grande scrittore ha camminato per le strade di quella cittadina, che nella mia memoria è rimasta così particolare, isolata e favolosa.
Scopro adesso nel libro di Bucciante, nativo di Chieti, che Corrado Alvaro aveva passato quel periodo, durante la lunga attesa della liberazione, proprio nella sua casa abruzzese.
Il libro di Bucciante è importante perché documenta nei dettagli la disorganizzazione dell’esercito e la sua organica impreparazione (“un esercito di accattoni”, pag. 359), l’incompetenza, la sciocca ambizione, l’invidia e l’odio di ciascun generale per tutti i colleghi, il loro servilismo assoluto e la conseguente mancanza di senso di responsabilità e, infine, il pressappochismo, la vanità, l’inconsistenza dei politici. A cominciare da ‘lui’, Mussolini, “con quel suo tono da Zeus” (pag 349).
Il 6 giugno del 1940, a pochi giorni dall’entrata in guerra, il Duce dichiara a un collaboratore: “Se dovessi aspettare di avere l’esercito pronto, dovrei entrare in guerra fra anni, mentre invece devo entrare subito. Faremo quello che potremo”, perché “non si doveva disertare la storia” (febbraio 1940, pag. 319). Fu molto più lungimirante e profetico un contadino abruzzese che in quei giorni disse all'autore del libro: "Sta guerre s'ha da fà e s'ha da perde".
Ma queste sono ormai cose arcinote.
A me preme affermare che quel modo di amministrare e di governare è rimasto vivo ed è praticato ancora oggi, dopo essere passato indenne attraverso la guerra di liberazione e sette decenni di vita repubblicana. Quel tipo di uomini politici e di amministratori non è per niente estinto. Anzi si sono moltiplicati e, se possibile, sono diventati ancora più rapaci e irresponsabili. Non c’è stata una guerra a rivelare in modo traumatico e inoppugnabile quanto la sottocultura politica e la mala amministrazione del periodo fascista continuino ancora oggi, ma i segnali sono numerosi, le situazioni critiche diventano drammatiche, e la somma dei loro effetti sarà devastante quanto una guerra. Parlo del totale fallimento dell’ordinamento regionale, che fu introdotto più di 40 anni fa come un toccasana della democrazia; l’adozione della moneta unica europea, che ci porterà a un disastro economico; il modo irresponsabile (buonista e cinico) con cui viene affrontato il problema dell’immigrazione; ecc.
Bucciante, da storico serio fedele al suo tema, non dice niente sul dopoguerra e sugli anni successivi (è morto nel 1991 a 84 anni). Ma in più punti sostiene che l’esercito fascista è stato l’erede dell’esercito piemontese.
A pag. 144 Bucciante, parlando del maresciallo De Bono, scrive: “Pensammo al libro di De Amicis in cui i racconti della vita militare ci accompagnarono nell’infanzia per educarci all’amor di patria: un amore come l’olio di fegato di merluzzo che si usava allora per irrobustire i bambini. Il maresciallo era rimasto, malgrado la guerra, a quell’esercito di guarnigione della piccola Italia divisa tra la caserma e il ‘campo’, tra uno squillo di tromba e il ‘tamburino sardo’ che spia l’arrivo degli austriaci stando in cima ad un albero. Questi erano i generali di Mussolini”.
E a pag. 295 Bucciante scrive più distesamente: “Nel ricostruire il comando supremo, Badoglio non aveva dimenticato di ricordare (stupefacente ammissione da parte di chi era da quindici anni capo di stato maggiore generale) che l’alto comando era ‘pieno di attriti’ e di non mai definite precisazioni di funzioni. Un male cronico che era già stato denunciato dal generale Capello che nel 1920 accusava di inettitudine l’alta gerarchia militare e in particolare lo stato maggiore “impersonato per una troppo lunga serie di anni in qualche personaggio di carta pesta”. E proseguiva: “Si giunse alla vigilia del conflitto, senza i mezzi, con una preparazione tecnica acquisita senza convinzione nella cosiddetta Scuola di Guerra, ispirata a metodi di formalistica antiquata, con imparaticci copiati straccamente dall’estero e specialmente dalla Germania. […] Nei più alti comandi, la più bolsa retorica tenne il posto dell’apostolato, le più basse manifestazioni del gesuitismo metodico e meschino tennero il posto della dedizione generosa. […] Nell’esercito, per una lunga serie di anni, s’insinuò tra i buoni e i valenti una gelda di carrieristi e di individui senza alcuna capacità e senza fede, aridi, egoisti, incapaci mentalmente, mancipi degli uomini politici, schiene pieghevoli, impiegati…”.
Sembra che il generale Capello parli dell’oggi. Solo che oggi non si vedono “i buoni e i valenti”.
Insomma: la storia non fa salti. Il periodo fascista è stato un lungo ponte che ha trasportato il pressapochismo sabàudo (leggete Carlo Cattaneo: il re Carlo Alberto andava in guerra senza le carte militari!) e la corruzione dell'Italia monarchica a incistarsi e crescere ben dentro la nostra Italia repubblicana.
Con buona pace di Corrado Augias e di Lucio Villari, cantori felici del tempo presente e del tempo passato.

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