martedì 28 luglio 2015

Fëdor Dostoevskij, Umiliati e offesi.


Per apprezzare questo romanzo, lo smaliziato lettore moderno deve avere pazienza. Scritto come romanzo d’appendice, “Umiliati e Offesi” offre il fianco a parecchi buoni motivi di derisione. I personaggi sono invasati da una unica passione (chi dall’amore erotico; chi dall’amore di genitore o di figlio; uno solo, il principe Valkovskij, dall’amore per il denaro e dal gusto di fare il male), ed è soprattutto questa unica passione dominante che viene raccontata e rappresentata, fra continui pianti e singhiozzi a cui i personaggi, sempre malati o sul punto di ammalarsi, sempre agitati e febbricitanti, si abbandonano con sorprendente facilità. Il personaggio che racconta, e che fa da cerniera alle tre o quattro situazioni della storia, non fa che correre tutto il giorno, in un modo fisicamente poco verosimile, da una casa all’altra, da una visita all’altra, dove assiste a scene drammatiche e si sorbisce discorsi interminabili. La storia si svolge tutta in camere d’appartamento ed ha uno sviluppo così teatrale, che, per esempio, sembra che certi personaggi non escano mai di casa e stiano sempre dentro ad aspettare eventi che debbano venire dall’esterno. Anche il paesaggio, le strade, i negozi, le carrozze, la gente che passeggia, piuttosto che essere rappresentati in modo diretto, sono brevemente richiamati quasi soltanto nei lunghi discorsi dei protagonisti, che sono spesso relazioni piene di particolari. Gli elementi pittoreschi e raccapriccianti creano una atmosfera dickensiana dove non manca nemmeno il gusto delle coincidenze. Mancano però l’umorismo e la leggerezza di Dickens. Ma proprio questo forse è il discrimine. Non bisogna pensare che Dostoevskij sia incapace di umorismo. In questo romanzo ce ne sono alcuni divertenti e amari esempi: la coloritissima invettiva della Bubnova contro Nelly, la bambina che la megera vorrebbe avviare alla prostituzione, e, sul finale, l’editore di Ivan Petrovič, che “si sforzava di espormi chiaramente un’idea letteraria che aveva udita proprio da me circa tre giorni prima, e contro la quale aveva allora altamente protestato; e me l’esponeva come fosse sua”. Dostoevskij, però, ha un interesse umano troppo grande e profondo per giocare, come fa Dickens, con i nomi e i tic dei personaggi. Anche quando fa parlare Alioscia, l’eterno fanciullo in balìa del padre principe Valkovskij, non mancano, tuttavia, i tratti comici e sarcastici.

E dunque, se si supera la parte esteriore, artificiosa e forse irritante del romanzo, si può arrivare al suo centro, scoprendo proprio nei lunghi discorsi dei protagonisti la sua nutriente polpa. La capacità di Dostoevskij di far parlare i suoi personaggi è eccezionale: essi si rivelano con naturalezza, originale plasticità e una infinità di dettagli. Il punto più alto, in questo romanzo,  della comprensione umana di Dostoevskij è nella delicatezza e nell’attenzione con cui descrive con poche parole il crescente affetto fra gli anziani coniugi Ikmenev, disperati per l’abbandono della figlia Natascia. I lunghi discorsi che formano il romanzo rappresentano insomma l'eterna colata di lava della vita, che trascina la gente, con le forti emozioni che la animano e la fanno soffrire, verso una sorte che solo gli umili accettano con rassegnazione e dignità.

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