La prima semplice lettura di questo monumentale
romanzo forse non è sufficiente per afferrarne il vasto respiro, così come arrivare
per la prima volta sulla cima di una montagna non basta per avere un’idea della sua estensione e
conformazione, dell’inclinazione dei suoi pendìi e della vegetazione che li
ricopre. Dopo aver letto il libro di Ippolito Nievo, sarebbe dunque necessario cominciare a girargli intorno e a
osservarlo dall’alto e dal basso, perché si tratta di esplorare una vera e
propria montagna molto ineguale. Compito che io non ho il talento né il tempo
di svolgere, accontentandomi di esprimere meraviglia, ammirazione e anche 'suggezione' (come scrisse Benedetto Croce) per un’opera
così singolare e per la grandissima tempra dell’autore, che l’ha scritta in
pochi mesi, fra i 26 e i 27 anni di età, dal dicembre del 1857 all’agosto del 1858.
Tuttavia, pur essendo questa la mia prima lettura di Nievo, cercando di guardare un po'
al di sopra della singola pagina, credo di aver colto il sentimento più vero che
unifica la sua vasta rappresentazione: che la vita scorre, lenta o impetuosa, sempre sorprendente e interessante nelle
sue molteplici forme drammatiche o comiche; che essa si spezza, si spegne e muore, ma risorge e
si rinnova in continuazione, pur conservando vive la memoria e la nostalgia del
passato, con nuove energie e nuove prospettive. Ho letto perciò come una gratificante conferma
il giudizio di Giovanni Comisso sul romanzo del Nievo: “Il senso della vita e del tempo non mi è mai stato dato così forte da
nessun altro libro”.
Questa concezione religiosa della vita, anche se spesso scade in un tono enfatico e in divagazioni prolisse, è strettamente intrecciata nell'animo del Nievo ad una attenta osservazione dei fatti
storici e sociali e alimenta la sua moderna tempra di moralista. Riporto, dal capitolo VIII, la descrizione dei suoi compagni
di collegio, a Padova, che si chiude con un giudizio fulminante, oggi più attuale che mai:
“Coloro che
io aveva compagni di collegio erano per la maggior parte pecoroni di montagna,
rozzi, sudici, ignoranti; semenzaio di futuri cancellieri per gli orgogliosi
giurisdicenti, o di nodari venderecci per gli uffici criminali. Tripudiavano e
s'abbaruffavano fra loro, appiccavano eterni litigi coi birri, coi beccai,
cogli osti; con questi soprattutto, perché avevano la strana idea di non
volerli lasciar partire dalla taverna se prima non pagavano lo scotto. La
querela terminava dinanzi al Foro privilegiato degli scolari; dove i giudici
mostravano il facile buonsenso di dar sempre ragione a questi ultimi, per non
incorrere nel loro sdegno altrettanto implacabile, quanto poco giusto e
moderato. Gli studenti patrizi si tenevano in disparte a tutto potere da questa
bordaglia; piú per paura che per boria, credo. E del resto non mancava anche
allora il ceto di mezzo, quello dei piú, dei tentennanti, dei misurati, che
nell'abbondare della mesata s'accomunava ai costosi piaceri dei nobili, e nella
povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre e petulanti baldorie degli
altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi; fra loro poi
si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel medio ceto senza
cervello e senza cuore che si credette poi democratico perché incapace di
ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente”.
In conclusione, però, rimango con questo dubbio: se Nievo avesse
scritto il suo romanzo non nel 1858, in piena epopea risorgimentale, ma appena cinque
o dieci anni dopo, quando l’unificazione italiana aveva già mostrato la sua
miseria, avrebbe egli potuto ancora scrivere con lo stesso sereno, anche se combattivo, ottimismo che “la forza delle idee non si spegne; e le
anime dai loro misteriosi recessi seguitano a premere questo mondo riottoso e
battagliero” (pag. 918)? Avrebbe ancora potuto rappresentare il mondo come
un teatro dove tutte le azioni sospese finiscono col compiersi, dove i fatti tendono, spesso riuscendoci, a fondersi in un tutto
armonico e le speranze, anche quelle minime, tendono a realizzarsi, come, per esempio, persino la
pubblicazione postuma dell’opera a cui il Conte Rinaldo di Fratta aveva lavorato
tutta la vita? No, non lo credo. La Storia critica del commercio veneto, scritta dal Conte Rinaldo, opera della sua intera vita, trascorsa sempre in biblioteca,
senza mai alzare il naso dai libri, senza
nessun contatto con la realtà, sembra il parto della mente astratta e fantastica
di un Don Ferrante, e già solo questa affettuosa e perspicace ironia del Nievo fa
pensare che, a unificazione d'Italia avvenuta, i suoi occhi avrebbero saputo guardare
ancora più lontano e in profondità nel caos della storia.
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