giovedì 25 giugno 2015

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un Italiano. Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2004.



La prima semplice lettura di questo monumentale romanzo forse non è sufficiente per afferrarne il vasto respiro, così come arrivare per la prima volta sulla cima di una montagna non basta per avere un’idea della sua estensione e conformazione, dell’inclinazione dei suoi pendìi e della vegetazione che li ricopre. Dopo aver letto il libro di Ippolito Nievo, sarebbe dunque  necessario cominciare a girargli intorno e a osservarlo dall’alto e dal basso, perché si tratta di esplorare una vera e propria montagna molto ineguale. Compito che io non ho il talento né il tempo di svolgere, accontentandomi di esprimere meraviglia, ammirazione e anche 'suggezione' (come scrisse Benedetto Croce) per un’opera così singolare e per la grandissima tempra dell’autore, che l’ha scritta in pochi mesi, fra i 26 e i 27 anni di età, dal dicembre del 1857 all’agosto del 1858.
Tuttavia, pur essendo questa la mia prima lettura di Nievo, cercando di guardare un po' al di sopra della singola pagina, credo di aver colto il sentimento più vero che unifica la sua vasta rappresentazione: che la vita scorre, lenta o impetuosa,  sempre sorprendente e interessante nelle sue molteplici forme drammatiche o comiche;  che essa si spezza, si spegne e muore, ma risorge e si rinnova in continuazione, pur conservando vive la memoria e la nostalgia del passato, con nuove energie e nuove prospettive. Ho letto perciò come una gratificante conferma il giudizio di Giovanni Comisso sul romanzo del Nievo: “Il senso della vita e del tempo non mi è mai stato dato così forte da nessun altro libro”.
Questa concezione religiosa della vita, anche se spesso scade in un tono enfatico e in divagazioni  prolisse, è strettamente intrecciata nell'animo del Nievo ad una attenta osservazione dei fatti storici e sociali e alimenta la sua moderna tempra di moralista. Riporto, dal capitolo VIII, la descrizione dei suoi compagni di  collegio, a Padova, che si chiude con un giudizio fulminante, oggi più  attuale che mai:
“Coloro che io aveva compagni di collegio erano per la maggior parte pecoroni di montagna, rozzi, sudici, ignoranti; semenzaio di futuri cancellieri per gli orgogliosi giurisdicenti, o di nodari venderecci per gli uffici criminali. Tripudiavano e s'abbaruffavano fra loro, appiccavano eterni litigi coi birri, coi beccai, cogli osti; con questi soprattutto, perché avevano la strana idea di non volerli lasciar partire dalla taverna se prima non pagavano lo scotto. La querela terminava dinanzi al Foro privilegiato degli scolari; dove i giudici mostravano il facile buonsenso di dar sempre ragione a questi ultimi, per non incorrere nel loro sdegno altrettanto implacabile, quanto poco giusto e moderato. Gli studenti patrizi si tenevano in disparte a tutto potere da questa bordaglia; piú per paura che per boria, credo. E del resto non mancava anche allora il ceto di mezzo, quello dei piú, dei tentennanti, dei misurati, che nell'abbondare della mesata s'accomunava ai costosi piaceri dei nobili, e nella povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre e petulanti baldorie degli altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi; fra loro poi si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel medio ceto senza cervello e senza cuore che si credette poi democratico perché incapace di ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente”.
In conclusione, però, rimango con questo dubbio: se Nievo avesse scritto il suo romanzo non nel 1858, in piena epopea risorgimentale, ma appena cinque o dieci anni dopo, quando l’unificazione italiana aveva già mostrato la sua miseria, avrebbe egli potuto ancora scrivere con lo stesso sereno, anche se combattivo, ottimismo che “la forza delle idee non si spegne; e le anime dai loro misteriosi recessi seguitano a premere questo mondo riottoso e battagliero” (pag. 918)? Avrebbe ancora potuto rappresentare il mondo come un teatro dove tutte le azioni sospese finiscono col compiersi, dove i fatti tendono, spesso riuscendoci, a fondersi in un tutto armonico e le speranze, anche quelle minime, tendono a realizzarsi,  come, per esempio, persino la pubblicazione postuma dell’opera a cui il Conte Rinaldo di Fratta aveva lavorato tutta la vita? No, non lo credo. La Storia critica del commercio veneto, scritta dal Conte Rinaldo, opera della sua intera vita, trascorsa sempre in biblioteca, senza mai alzare il naso dai libri, senza nessun contatto con la realtà, sembra il parto della mente astratta e fantastica di un Don Ferrante, e già solo questa affettuosa e perspicace ironia del Nievo fa pensare che, a unificazione d'Italia avvenuta, i suoi occhi avrebbero saputo guardare ancora più lontano e in profondità nel caos della storia.  

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