Il libro
di Ciano, genero di Mussolini, ministro degli esteri in anni cruciali, fatto condannare
a morte dal Duce per aver votato l’ordine del giorno Grandi nella riunione del
Gran Consiglio del 25 luglio 1943, è molto interessante e perfino avvincente.
Non l’ho
letto per interesse storico, ma per curiosità psicologica. Volevo conoscere
dall’interno del loro mondo politico i dirigenti e i burocrati fascisti di quel
tempo, a cominciare da Mussolini.
Ciano nel
suo diario non appare un uomo antipatico. E’ acuto nel giudicare il servilismo
e l’incompetenza dei suoi colleghi ministri e dirigenti di partito, di generali
e ambasciatori, e ha un fondo di buon senso e di umanità che gli consente di annotare
con stupore tante affermazioni strampalate di Mussolini. Gli mancano però delle
doti fondamentali di carattere e di indipendenza morale, per cui spesso cede
all’enfasi e alla fatuità, cade in contraddizioni e superficialità, e nella
vita reale appoggia iniziative “eroiche” che nell’intimità del suo diario
contesta.
Un
piccolo esempio. Pur conoscendo benissimo la situazione disastrosa
dell’esercito italiano (è il generale Giacomo Carboni che lo informa
ripetutamente, a cominciare dal 2 maggio 1939), promette al ministro di
Bulgaria, il 29 maggio, che l’Italia colmerà le lacune della preparazione
militare di quel paese.
In Italia
il dato costante della politica delle nostre classi dirigenti, di qualsiasi
colore siano (nere, bianche o rosse), non è tanto la povertà dei mezzi, quanto il
cialtronesco pressappochismo e la colpevole indifferenza alla buona
organizzazione.
Il 5
settembre 1939 Ciano scrive: “Il Generale
Carboni fa un quadro molto nero delle condizioni della nostra preparazione
militare: scarsi mezzi, disordine nei comandi, demoralizzazione nella massa”.
Ciononostante
Mussolini “si propone di scrivere una
lettera a Hitler per dirgli che, allo stato degli atti, l’Italia rappresenta per
la Germania una riserva economica e morale, ma che in seguito potrà anche
giocare un ruolo militare” (25 ottobre 1939).
E il 21
dicembre il Duce ha il coraggio di dire “che
non avrebbe mai permesso una sconfitta della Germania”; mentre il 5 marzo
1940 dichiara: “Non appena sarò pronto,
farò pentire gli inglesi. Il mio intervento in guerra significa la loro
sconfitta”.
E’
passato ormai un tempo così lungo dalla tragedia della guerra, che verrebbe
quasi da ridere di queste ignobili fanfaronate, se non ce lo impedisse il fatto che
la storia si ripete. “La storia non è magistra / di niente che ci riguardi”, ha
scritto Montale. E’ buona tutt’al più per coltivare, consolare o anche angosciare
l’animo di singoli individui, ma certo non a illuminare il cammino di una
nazione.
Le
fanfaronate di Mussolini e le sue frasi ad effetto, che vorrebbero essere
sentenziose e sono soltanto sonore buffonerie, non ci hanno purtroppo per
niente vaccinato contro le fanfaronate e i vuoti slogan dei politici che sono
venuti dopo. Le fanfaronate recenti sembrano
avere, anzi, una accresciuta capacità di influenzare la gente, troppo stordita
e disorientata da decenni di televisione, di propaganda bugiarda e di
pubblicità martellante .
Lo sfondo
delle fanfaronate di Mussolini era la cupa tragedia della guerra, lo sfondo
delle fanfaronate attuali è una crisi economica politica e culturale di
dimensioni drammatiche.
Oltre a
quelle già citate, ecco alcune altre frasi di Mussolini annotate da Ciano: “Nella lotta tra le forze della
conservazione e quelle della rivoluzione sono sempre queste ultime che vincono”,1
maggio 1940;
“Le Chiese non hanno bisogno di rame (il Duce
voleva requisire anche gli arredi sacri), bensì
di fede. E di fede ormai ce n’è poca. Il cattolicesimo ha il torto di
pretendere troppa credulità da parte dell’uomo moderno”, 21 febbraio 1940.
“Bastano le sette città della Romagna per fare
fuori contemporaneamente Re e Papa”, 12 maggio 1940.
“Bisogna che la gente sappia che la vita è una cosa
seria e che la guerra è la cosa più seria della vita”, 10
gennaio 1941.
Venendo all’attualità e a Matteo
Renzi (de te fabula narratur), per trovare una somiglianza fra le sue
fanfaronate e quelle del Duce, non c’è bisogno di immaginare una simpatia
renziana per la figura di Mussolini o che egli si sia anche solo vagamente proposto
di imitarne lo stile. Credo anzi che lo
conosca appena: con il suo superattivismo,
Renzi non deve aver avuto né tempo né calma sufficiente per studiare. E’
vero che ha detto: “i valori della cultura
fanno di noi una superpotenza mondiale”, ma lui voleva semplicemente farsi bello
di un patrimonio artistico che l’Italia di oggi, senza alcun merito, ha
ereditato dai secoli passati, e non alludeva all'essenza di pensiero critico
che la cultura possiede, e che Renzi, appena apre bocca, mostra di non sapere nemmeno
cosa sia.
Renzi dunque non ha bisogno di imitare
nessuno, è un prodotto diretto e spontaneo, un figlio genuino e arciconvinto di questa nostra epoca in cui tutto, anche la
bruttezza e l’ignoranza, diventa spettacolo per un pubblico più vasto possibile.
In questo spettacolo, l’ignoranza, per
esempio, come molte altre caratteristiche negative, non è un disvalore, ma
diventa anzi un titolo di merito e un vantaggio. Però è essenziale essere orgogliosi
e fieri della propria ignoranza con disinvoltura e convinzione. E’ essenziale
rivendicarla come una dote di semplicità e
realismo che si contrappone con coraggio alle esitazioni e ai dubbi di
coloro (sgobboni!) che studiano, riflettono e vedono i problemi.
Il modo sprezzante e la varietà
di appellativi beffardi con cui Renzi tratta i “professoroni” ricordano
Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie, descritto da Luigi Settembrini
nelle sue Ricordanze: “… egli era ignorante, non leggeva mai libro,
scriveva con molti errori di ortografia… non credeva virtù in altri, ne beffava
il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la furbizia, chiunque sapesse
leggere e scrivere era suo nemico ed egli lo chiamava ‘pennaiuolo’; si circondò
degli uomini più ignoranti”.
La natura di Renzi è una natura
fatta per lo spettacolo, per svolgersi e realizzarsi davanti a un pubblico da conquistare
e egemonizzare. Per questo egli sembra essere sempre in uno stato di sovreccitazione, avido e felice di essere guardato, attento e studiato nel mostrarsi. Mi riesce impossibile immaginare che Renzi faccia qualcosa solo
per se stesso, cioè per un piacere intellettuale o per una soddisfazione morale che rimangano intimi
e non comunicati a nessuno. Pascal ha scritto che il dramma morale dell’uomo moderno nasce dal fatto che egli non è capace di restare chiuso da solo in una
stanza a pensare. Renzi è al 100% quell’uomo descritto da Pascal, incapace di
stare da solo in una stanza a riflettere anche soltanto per mezza giornata. Se
Renzi vi fosse proprio costretto, starebbe con televisione radio e computer
accesi, e tutti i giocattoli della sofisticata tecnologia a portata di mano.
Va bene, si dirà, ma un politico,
un giovane che abbia vocazione alla politica non è né deve essere un
filosofo contemplativo che ami star chiuso in una stanza. Ma non è vero. I grandi politici
non sono stati uomini che si sentivano grandi e sicuri di sé solo quando
sapevano conquistare il consenso del pubblico, ma erano uomini saldi in se
stessi anche nei momenti di solitudine e di isolamento. Si può partire da
Giulio Cesare e Marco Aurelio e arrivare a Winston Churchill, Charles De
Gaulle, Lev Trockij.
Quando Renzi avrà dimostrato la
sua incapacità di risolvere i problemi concreti, e anche i suoi sostenitori avranno cominciato ad
accorgersi che le sue sentenze sono slogan pubblicitari e le sue brillanti battute
solo giochi di parole, cosa rimarrà del “grande comunicatore”? Un politico-attore
senza pubblico e senza scritture. Allora, forse, dopo aver trasformato la politica italiana in un grande spettacolo di varietà, potrà finalmente diventare davvero un brillante presentatore televisivo, ridimensionato su programmi della sua misura.
Sic transit gloria mundi.
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