mercoledì 24 settembre 2014

Trasformismo: in Italia "tutto scorre ma niente cambia". Fanfaronate italiche, da Galeazzo Ciano (Diario 1939-1943. Rizzoli, 1968) a Matteo Renzi.



Il libro di Ciano, genero di Mussolini, ministro degli esteri in anni cruciali, fatto condannare a morte dal Duce per aver votato l’ordine del giorno Grandi nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, è molto interessante e perfino avvincente.
Non l’ho letto per interesse storico, ma per curiosità psicologica. Volevo conoscere dall’interno del loro mondo politico i dirigenti e i burocrati fascisti di quel tempo, a cominciare da Mussolini.
Ciano nel suo diario non appare un uomo antipatico. E’ acuto nel giudicare il servilismo e l’incompetenza dei suoi colleghi ministri e dirigenti di partito, di generali e ambasciatori, e ha un fondo di buon senso e di umanità che gli consente di annotare con stupore tante affermazioni strampalate di Mussolini. Gli mancano però delle doti fondamentali di carattere e di indipendenza morale, per cui spesso cede all’enfasi e alla fatuità, cade in contraddizioni e superficialità, e nella vita reale appoggia iniziative “eroiche” che nell’intimità del suo diario contesta.
Un piccolo esempio. Pur conoscendo benissimo la situazione disastrosa dell’esercito italiano (è il generale Giacomo Carboni che lo informa ripetutamente, a cominciare dal 2 maggio 1939), promette al ministro di Bulgaria, il 29 maggio, che l’Italia colmerà le lacune della preparazione militare di quel paese.
In Italia il dato costante della politica delle nostre classi dirigenti, di qualsiasi colore siano (nere, bianche o rosse), non è tanto la povertà dei mezzi, quanto il cialtronesco pressappochismo e la colpevole indifferenza alla buona organizzazione.
Il 5 settembre 1939 Ciano scrive: “Il Generale Carboni fa un quadro molto nero delle condizioni della nostra preparazione militare: scarsi mezzi, disordine nei comandi, demoralizzazione nella massa”.
Ciononostante Mussolini “si propone di scrivere una lettera a Hitler per dirgli che, allo stato degli atti, l’Italia rappresenta per la Germania una riserva economica e morale, ma che in seguito potrà anche giocare un ruolo militare” (25 ottobre 1939).
E il 21 dicembre il Duce ha il coraggio di dire “che non avrebbe mai permesso una sconfitta della Germania”; mentre il 5 marzo 1940 dichiara: “Non appena sarò pronto, farò pentire gli inglesi. Il mio intervento in guerra significa la loro sconfitta”.
E’ passato ormai un tempo così lungo dalla tragedia della guerra, che verrebbe quasi da ridere di queste ignobili fanfaronate, se non ce lo impedisse il fatto che la storia si ripete. “La storia non è magistra / di niente che ci riguardi”, ha scritto Montale. E’ buona tutt’al più per coltivare, consolare o anche angosciare l’animo di singoli individui, ma certo non a illuminare il cammino di una nazione.
Le fanfaronate di Mussolini e le sue frasi ad effetto, che vorrebbero essere sentenziose e sono soltanto sonore buffonerie, non ci hanno purtroppo per niente vaccinato contro le fanfaronate e i vuoti slogan dei politici che sono venuti dopo. Le fanfaronate recenti sembrano  avere, anzi, una accresciuta capacità di influenzare la gente, troppo stordita e disorientata da decenni di televisione, di propaganda bugiarda e di pubblicità martellante .
Lo sfondo delle fanfaronate di Mussolini era la cupa tragedia della guerra, lo sfondo delle fanfaronate attuali è una crisi economica politica e culturale di dimensioni drammatiche.
Oltre a quelle già citate, ecco alcune altre frasi di Mussolini annotate da Ciano: “Nella lotta tra le forze della conservazione e quelle della rivoluzione sono sempre queste ultime che vincono”,1 maggio 1940;
“Le Chiese non hanno bisogno di rame (il Duce voleva requisire anche gli arredi sacri), bensì di fede. E di fede ormai ce n’è poca. Il cattolicesimo ha il torto di pretendere troppa credulità da parte dell’uomo moderno”, 21 febbraio 1940.
“Bastano le sette città della Romagna per fare fuori contemporaneamente Re e Papa”, 12 maggio 1940.
“Bisogna che la gente sappia che la vita è una cosa seria e che la guerra è la cosa più seria della vita”, 10 gennaio 1941.
Venendo all’attualità e a Matteo Renzi (de te fabula narratur), per trovare una somiglianza fra le sue fanfaronate e quelle del Duce, non c’è bisogno di immaginare una simpatia renziana per la figura di Mussolini o che egli si sia anche solo vagamente proposto di imitarne lo stile.  Credo anzi che lo conosca appena: con il suo superattivismo,  Renzi non deve aver avuto né tempo né calma sufficiente per studiare. E’ vero che ha detto: “i valori della cultura fanno di noi una superpotenza mondiale”, ma lui voleva semplicemente farsi bello di un patrimonio artistico che l’Italia di oggi, senza alcun merito, ha ereditato dai secoli passati, e non alludeva all'essenza di pensiero critico che la cultura possiede, e che Renzi, appena apre bocca, mostra di non sapere nemmeno cosa sia.
Renzi dunque non ha bisogno di imitare nessuno, è un prodotto diretto e spontaneo, un figlio genuino e arciconvinto  di questa nostra epoca in cui tutto, anche la bruttezza e l’ignoranza, diventa spettacolo per un pubblico più vasto possibile.  In questo spettacolo, l’ignoranza, per esempio, come molte altre caratteristiche negative, non è un disvalore, ma diventa anzi un titolo di merito e un vantaggio. Però è essenziale essere orgogliosi e fieri della propria ignoranza con disinvoltura e convinzione. E’ essenziale rivendicarla come una dote di semplicità e realismo che si contrappone con coraggio alle esitazioni e ai dubbi di coloro (sgobboni!) che studiano, riflettono e vedono i problemi.

Il modo sprezzante e la varietà di appellativi beffardi con cui Renzi tratta i “professoroni” ricordano Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie, descritto da Luigi Settembrini nelle sue Ricordanze: egli era ignorante, non leggeva mai libro, scriveva con molti errori di ortografia… non credeva virtù in altri, ne beffava il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la furbizia, chiunque sapesse leggere e scrivere era suo nemico ed egli lo chiamava ‘pennaiuolo’; si circondò degli uomini più ignoranti”.
La natura di Renzi è una natura fatta per lo spettacolo, per svolgersi e realizzarsi davanti a un pubblico da conquistare e egemonizzare. Per questo egli sembra essere sempre in uno stato di sovreccitazione, avido e felice di essere guardato, attento e studiato nel mostrarsi. Mi riesce impossibile immaginare che Renzi faccia qualcosa solo per se stesso, cioè per un piacere intellettuale o per una soddisfazione morale che rimangano intimi e non comunicati a nessuno. Pascal ha scritto che il dramma morale dell’uomo moderno nasce dal fatto che egli non è capace di restare chiuso da solo in una stanza a pensare. Renzi è al 100% quell’uomo descritto da Pascal, incapace di stare da solo in una stanza a riflettere anche soltanto per mezza giornata. Se Renzi vi fosse proprio costretto, starebbe con televisione radio e computer accesi, e tutti i giocattoli della sofisticata tecnologia a portata di mano.
Va bene, si dirà, ma un politico, un giovane che abbia vocazione alla politica non è né deve essere un filosofo contemplativo che ami star chiuso in una stanza. Ma non è vero. I grandi politici non sono stati uomini che si sentivano grandi e sicuri di sé solo quando sapevano conquistare il consenso del pubblico, ma erano uomini saldi in se stessi anche nei momenti di solitudine e di isolamento. Si può partire da Giulio Cesare e Marco Aurelio e arrivare a Winston Churchill, Charles De Gaulle, Lev Trockij.
Quando Renzi avrà dimostrato la sua incapacità di risolvere i problemi concreti, e  anche i suoi sostenitori avranno cominciato ad accorgersi che le sue sentenze sono slogan pubblicitari e le sue brillanti battute solo giochi di parole, cosa rimarrà del “grande comunicatore”? Un politico-attore senza pubblico e senza scritture. Allora, forse, dopo aver trasformato la politica italiana in un grande spettacolo di varietà, potrà finalmente diventare davvero un brillante presentatore televisivo, ridimensionato su programmi della sua misura.
Sic transit gloria mundi.

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