mercoledì 9 luglio 2014

“Mi piacerebbe sapere il parere dell’intrepido Luigi Manconi, nostra gradita voce e autorità nazionale del politicamente correttissimo” (Giuliano Ferrara, il Foglio del 19 maggio scorso).



Luigi Manconi, giornalista, senatore del Partito democratico e docente niente meno che di sociologia dei fenomeni politici,  desiderando  intervenire su un fatto pubblico abbastanza insignificante e non potendo resistere, dice lui, all'invito del direttore (che a me sembra piuttosto una canzonatura), ha scritto un lungo articolo su il Foglio del 27 giugno scorso.
In esso, l’intrepido paladino dei diritti civili sistema a dovere, con critiche durissime e accuse definitive, sia Carlo Giovanardi che Marco Travaglio. Direi che l’obiettivo della sua invettiva sia più Travaglio che Giovanardi; credo anzi che egli abbia accoppiato i due in un unico discorso solo perché era persuaso che, aggiungendo a Travaglio il peso di Giovanardi, fosse più facile mandare a fondo l’insopportabile giustizialista del Fatto quotidiano.
Travaglio ha segnalato sul suo giornale l’articolo di Manconi, riportandone  le critiche più significative (ma sarebbe più corretto chiamarle insulti). Sono andato, allora, a leggere l’articolo intero e l’ho trovato sbalorditivo per l’astio che esprime. Ho avuto poi curiosità di ricostruire, almeno per sommi capi, la polemica che Manconi conduce contro Travaglio, e sono risalito, attraverso altri tre lunghi articoli (tutti pubblicati sul giornale di Giuliano Ferrara), fino al 2012.
Non è stato divertente leggerli e analizzarli. Sono articoli che nascono da una avversione profonda e completa. La critica di Manconi, benché sia radicale e si presenti sotto paludamenti culturali, non ha in sostanza alcun contenuto intellettuale: infatti le argomentazioni di carattere culturale sono solo un pretesto e una mascheratura, per far immaginare che il suo contrasto con Travaglio abbia un grande respiro ideale e non nasca invece (come penso io) da una opportunistica e inconfessabile prospettiva politica.
Gli articoli di Manconi sono impastati di acredine e costringono il lettore onesto a una puntigliosa e noiosa attenzione, per sottolineare gli insulti, correggere le bugie, scoprire gli  esibizionismi e le guitterie, riportare a una misura le immagini esagerate e insincere, smontare i ragionamenti strampalati, respingere le  affermazioni gratuite.
Ho avuto il dubbio che non valesse la pena dedicare tempo e fatica allo studio di un personaggio che non è né simpatico né interessante. Ma costui è “un’autorità nazionale del politicamente correttissimo”, rappresenta cioè ad alto livello il buonismo senza bontà dilagato  nel nostro paese, e mette tutto il suo impegno per oscurare la verità e attribuire un significato torbido e morboso ad una interpretazione della realtà politica e sociale (quella data da Travaglio), che a me invece sembra libera e appassionata. Esaminiamo qualche punto essenziale della polemica caotica ed enfatica condotta da  Manconi.
Il motivo ricorrente è che Travaglio è un uomo amorale/immorale e che per questo egli scrive “male, malissimo”. La sua scrittura “questurina” ha successo, riconosce Manconi, ma solo perché è sommamente corriva, blandisce i più consolidati stereotipi e titilla quel senso comune che (sintetizzo brutalmente Antonio Gramsci) è la negazione del buon senso”. La scrittura di Travaglio è brutta “perché è, appunto, quella di un moralista  che fatalmente diventa immorale, dal momento che non conosce le lacerazioni della vita reale, bensì solo i codici che vorrebbero imprigionarla. Ne discende inevitabilmente un vocabolario povero e sciatto, ordinario e cupo e una prosa ferrigna e claustrofobica”.
Il povero Manconi, con questo scialo di aggettivi micidiali, vuole darsi la carica per arrivare alla conclusione che un ragionamento sobrio e lineare non gli consentirebbe di dimostrare: l’urgente necessità di abolire i codici, i quali imprigionano la vita e ignorano le sue dolorose lacerazioni.
Nella prosa di Travaglio, continua Manconi con un alto volo pindarico, non c’è “nulla della sregolatezza anarcoide di un Walter Chiari: qui siamo nello spazio linguistico  di un cinismo faceto, forse efficacissimo, eppure dannatamente conventicolare”.
Non sono gli aggettivi e gli avverbi che mancano al prode Manconi!
E continua imperterrito: nella prosa di Travaglio, “soprattutto, non c’è mai il dramma, mai la durezza della contraddizione radicale  e l’asprezza del dilemma etico. C’è al più l’esercizio petulante della criticuccia, l’elenco acido dei vizi altrui, il livore che si soddisfa nel cogliere qualcuno in fallo”.
Passi pure  il termine ‘criticuccia’, che vorrebbe alludere a un gioco da asilo infantile, ma il pronome ‘qualcuno’ è una perfida falsificazione. Non si tratta di un  ‘qualcuno’ qualsiasi: dietro quel ‘qualcuno’, Manconi vuol nascondere fior di politici e di amministratori.
Lo studioso di sociologia continua baldanzosamente:
“È come se fossimo in una brillante commedia inglese, prima che John Osborne  irrompesse sulla scena. O, piuttosto, siamo nel rutilante musical degli Immoralisti, dove non c'è traccia dell'intensità tragica del personaggio di André Gide, ma solo la futilità spassosa del gossip che si vorrebbe controinformazione e che si traveste da intransigenza”.
A questo punto, dovrebbe già essere chiaro che Manconi nei suoi flussi di pensiero non sa seguire un filo logico e che, spinto da una cultura  confusa e raccogliticcia, fa continuamente delle osservazioni incongrue e peregrine, le quali, a paragone dei sobri e stringati articoli del cronista giudiziario Travaglio (dal cui stile il senatore avrebbe solo da imparare), se non fanno ridere, mettono in imbarazzo.
Ma Manconi, nonostante la sua consapevolezza del “dilemma etico”, non dubita mai di se stesso e prosegue:
“quello sguardo inquisitore sembra passare sempre attraverso uno spioncino. Sembra sempre furtivo e rubato, ringhioso e rapace: sempre espressione di rivalsa sociale e di frustrazione livorosa”.
Manconi usa un linguaggio morboso ed enfatico che toglie ogni fondatezza alle cose che dice.
Ma ecco una affermazione della quale Manconi, limitato dalla sua angustia mentale e trascinato dalla sua avversione, non coglie la  gravità:
“Ma il tutto rimane all’altezza del buco della serratura, anche quando al di là della porta c’è uno scenario pubblico, la sfera politica, lo Stato”.
Vorremmo che l’esperto di fenomeni politici riflettesse su questo punto:  uno Stato le cui attività sono tanto ‘segrete’, che per conoscerle bisogna indagarle da uno spioncino, dal buco della serratura, che razza di Stato democratico è? Per rispettare il codice etico dei buonisti, bisognerebbe allora astenersi dal mettere l’occhio a quello spioncino e lasciare che la casta politica (lo stato ormai è la casta) custodisca per sempre i suoi segreti?
Ma la critica più falsa e fuorviante di Manconi è l’accusa a Travaglio di non avere “consapevolezza di quanto sia tragico il conflitto tra bene e male”, di non conoscere “l’asprezza del dilemma etico e le lacerazioni della vita morale”.
 Manconi pretende che un cronista giudiziario, che fa il suo mestiere di denunciare il crimine e difendere la legalità,  assomigli a Tolstoj e a Dostoevskij, che sia un teologo come lui.
En passant, osservo che le parole ‘legalità e difesa della legalità’ non ricorrono mai nei quattro articoli di Manconi che ho preso in considerazione. Travaglio non è tenuto a macerarsi nei dubbi morali come il  curato di Bernanos (che soffriva realmente e intimamente e non sbandierava la sua coscienza ai quattro venti, come fanno i buonisti), ma Manconi, sia come semplice cittadino che a maggior ragione come senatore della repubblica, sarebbe tenuto a occuparsi della democrazia e della legalità.
Solo partendo dal presupposto che Travaglio, oltre che cronista, debba essere anche un filosofo, Manconi può rimproverargli tutte le colpe elencate negli arzigogolatissimi brani che seguono e che varrebbero al nostro docente una sonora bocciatura anche all’esame di quinta ginnasio.
 “A leggere la prosa giustizialista, anche quando scintillante, e tanto più quando tetra (come spesso accade), si ha invece la sensazione che “il combattimento tra il Bene e il Male sia né più né meno che quello tra Antonio Ingroia e Giovanni Conso”.
Manconi legge gli articoli di Travaglio come se fossero la Divina Commedia e non si dà pace di non trovare niente di ‘divino’ nella prosa del nostro cronista.
“ La ragione è semplice: in quella prosa, il bene è qualcosa di ontologicamente insediato, riconoscibile e attingibile. Basta sceglierlo, disporsi là, dire ciò che va detto, fare ciò che va fatto. Il bene è un assunto, un principio presupposto e assoluto, un ‘motore immobile’. Appartiene a un universo fisso e da lì discende come una ‘rivelazione’, fino a rappresentare la costellazione di uno schieramento e, di conseguenza, di quanti  vi appartengono. Così il bene e la morale (quale orientamento allo stesso bene) perdono qualunque accezione conflittuale e qualunque dimensione drammatica per ridursi a una sorta di tessera di un club esclusivo o di password di accesso a uno status. Ed è proprio qui che bene e morale si rovesciano nel loro esatto contrario: nell’immoralità, appunto”.
Emessa la sua condanna, alla fine di questo oscuro ragionamento, Manconi conclude con soddisfazione, come per la dimostrazione di un teorema:
“Come volete che una simile concezione non produca una brutta scrittura?”
Ma allora, se Manconi ha invece una concezione della vita così profonda e morale, come fa, proprio lui, a scrivere in un modo tanto ingarbugliato e artificioso?                                   
Manconi osa addirittura ricordarci “che Nanni Moretti e Ludwig Wittgenstein hanno detto, con parole appena diverse, che chi pensa male parla (scrive) male”.
Ma, piuttosto, faccia tesoro lui di questa bella citazione! Alla quale io posso aggiungere i moniti di Cicerone e di Bruno Vespa, di Schopenhauer e di Beppe Severgnini.
Con un altro brano tortuoso, Manconi ribadisce la sua critica ai giornalisti giustizialisti e svolge un ragionamento che sembra concludersi con una richiesta di indulgenza plenaria per chi ha peccato.
Dopo aver accennato alla “profonda immoralità dei [sedicenti] moralisti”,  continua:
“ Essa [l'immoralità] è tale perché si basa sull'idea (davvero diabolica in senso proprio) che il bene sia allocato in una sede fisica definita e delimitata, alla quale corrispondono una condizione psicologica, uno spazio mentale e una dimensione della vita sociale.
Dentro quei confini si insedia il bene come autorità morale e principio giudicante: accedervi significa stare dalla parte e sotto la tutela e nella sfera d'azione dello stesso Bene. Uscirne perché sospettato di corrività o corruzione significa passare dalla parte del torto e del Male. E' quanto accade a chi, per le più diverse ragioni, viene "epurato" o a chi si sottrae a quella toponomastica virtuale e virtuosa, dove il bene e il male sono altrettante caselle di un gioco da tavolo, e sceglie di stare nel tumulto del mondo reale. Quello dove la morale non è un assunto scontato né un privilegio ereditario. E', piuttosto, un percorso accidentato, fatto di scelte sempre difficili e talvolta ambigue, errori e passi falsi; e dove il bene massimo che si possa raggiungere corrisponde né più né meno che al male minore”.
I nostri politici e amministratori, sempre esposti alle tentazioni,  non potrebbero desiderare una morale più indulgente e cristiana di questa: la grande morale dei tarallucci e vino.
Che Travaglio sia  “un amorale (e, talvolta, un immorale) truccato da moralista”, Manconi lo conferma e lo spiega ancora meglio ai lettori con questa lezioncina: “Il moralismo, si sa, può avere una sua funzione virtuosa, ma solo fino a quando è espressione di una concezione tragica dell’esistenza, segnata da un profondo pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla sua vocazione al male… In Travaglio nulla di tutto ciò… A quel punto il moralista già si è fatto immorale, perché si presuppone irriducibilmente estraneo alla fragilità umana e al di sopra di essa”.
Definirei questi discorsi con un’espressione di Luigi Russo: “flaccidezze letterarie”, oppure fantasticherie sentimentali condite con un bel po’ di mala fede. Non si può criticare un cronista giudiziario che difende con passione la legalità, perché nei suoi articoli non c’è l’eco della fragilità umana. Stiamo forse parlando delle tragedie di Shakespeare?  
Non prendo quasi in considerazione altre piccole accuse di Manconi: che Travaglio è un gerontofobo, che non sa far ridere, che nessuno gli vuole bene, che è speculare a Berlusconi.
Manconi vede una “simbiosi perfetta tra Berlusconi e Travaglio: stessa accidia morale (ilare nel primo, tetra nel secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza”.
Solita prosa artificiosa, con scialo di aggettivi e sostantivi forti. Questa simbiosi perfetta, poi, non impedisce a Manconi di scrivere sul Foglio. Ma si capisce: lui non è un manicheo e ha ben consapevolezza di quanto sia aspro il dilemma etico!
Negli articoli del nostro professore-senatore non c’è una frase, un'idea, una parola, una citazione che siano valide e bene espresse. Tutto è esagerato, confuso, artificioso, enfatico, falso. Tutto sembra procedere da una cultura disparata e posticcia che ignora la disciplina della logica e non conosce la realtà.  Manconi dimostra di non avere il sentimento della realtà.
Scrive delle cose assurde: Giovanardi e Travaglio sarebbero, “come ognuno può vedere [??], due personalità estremamente simili per tratti culturali e meccanismi comportamentali, per dispositivi linguistici e incontinenza gestuale, per tic e manie. E, soprattutto, per quel medesimo sguardo torvo e sordido che rivolgono agli esseri umani”.
Manconi parla usando, da un lato, il linguaggio dei manuali universitari, senza un minimo di rielaborazione, dall’altro, aggettivi trovati nei romanzi d’appendice.
E conclude il suo articolo del 27 giugno con immagini e parole apocalittiche:
“Mi è totalmente estraneo l’universo concentrazionario e coercitivo di Marco Travaglio; e la sua concezione reazionaria e regressiva della società, paranoicamente presentata come una “Italia a delinquere”, dove la politica è ‘liquame’ ”.
Può sembrare sorprendente che una “autorità nazionale del politicamente correttissimo”, un uomo sensibile alle “lacerazioni della vita reale”, si esprima con un linguaggio così violento e irrazionale e così vuoto. Io invece lo trovo tipico e non me ne stupisco. E’ già successo nella storia che  giacobini ed anarcoidi (Walter Chiari non c’entra) si siano trasformati in teologi e gesuiti.
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AGGIORNAMENTO del 22 luglio 2020

Dopo la rottura, un anno fa, dell'alleanza di governo Lega-Movimento 5 Stelle e il passaggio disinvolto e (per chi li aveva votati) innaturale dei 5 Stelle ad una alleanza col Partito democratico e il partitino di Matteo Renzi, il Fatto quotidiano è diventato un giornale strettamente governativo. Il suo direttore, all'inizio di questo drammatico cambiamento, mi pareva irriconoscibile e smemorato, ma presto ho trovato nella sua faziosità e nel pesante e rozzo sarcasmo verso critici e oppositori il pieno sviluppo, anzi l'esplosione, di tutte le caratteristiche denunciate da Luigi Manconi, al quale chiedo scusa. Aveva ragione lui: Travaglio è un giornalista senza cultura, cioè arido e senza cuore.

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