Luigi
Manconi, giornalista, senatore del Partito democratico e docente niente meno
che di sociologia dei fenomeni politici,
desiderando intervenire su un fatto
pubblico abbastanza insignificante e non potendo resistere, dice lui, all'invito del direttore (che a me sembra piuttosto una canzonatura), ha scritto un lungo
articolo su il Foglio del 27 giugno scorso.
In
esso, l’intrepido paladino dei diritti civili sistema a dovere, con critiche
durissime e accuse definitive, sia Carlo Giovanardi che Marco Travaglio. Direi
che l’obiettivo della sua invettiva sia più Travaglio che Giovanardi; credo
anzi che egli abbia accoppiato i due in un unico discorso solo perché era
persuaso che, aggiungendo a Travaglio il peso di Giovanardi, fosse più facile
mandare a fondo l’insopportabile giustizialista del Fatto quotidiano.
Travaglio
ha segnalato sul suo giornale l’articolo di Manconi, riportandone le critiche più significative (ma sarebbe più
corretto chiamarle insulti). Sono andato, allora, a leggere l’articolo intero e
l’ho trovato sbalorditivo per l’astio che esprime. Ho avuto poi curiosità di
ricostruire, almeno per sommi capi, la polemica che Manconi conduce contro
Travaglio, e sono risalito, attraverso altri tre lunghi articoli (tutti
pubblicati sul giornale di Giuliano Ferrara), fino al 2012.
Non è stato divertente leggerli e analizzarli. Sono articoli che nascono da
una avversione profonda e completa. La critica di Manconi, benché sia radicale e si presenti sotto paludamenti culturali, non ha in sostanza alcun contenuto
intellettuale: infatti le argomentazioni di carattere culturale sono solo un
pretesto e una mascheratura, per far immaginare che il suo contrasto con
Travaglio abbia un grande respiro ideale e non nasca invece (come penso io) da
una opportunistica e inconfessabile prospettiva politica.
Gli articoli di Manconi sono impastati di acredine e costringono il lettore
onesto a una puntigliosa e noiosa attenzione, per sottolineare gli
insulti, correggere le bugie, scoprire gli
esibizionismi e le guitterie, riportare a una misura le immagini
esagerate e insincere, smontare i ragionamenti strampalati, respingere le affermazioni gratuite.
Ho avuto il dubbio che non valesse la pena dedicare tempo e fatica allo
studio di un personaggio che non è né simpatico né interessante. Ma costui è “un’autorità nazionale del politicamente correttissimo”,
rappresenta cioè ad alto livello il buonismo senza bontà dilagato nel nostro paese, e mette tutto il suo impegno
per oscurare la verità e attribuire un significato torbido e morboso ad una
interpretazione della realtà politica e sociale (quella data da Travaglio),
che a me invece sembra libera e
appassionata. Esaminiamo qualche punto essenziale della polemica caotica ed
enfatica condotta da Manconi.
Il motivo ricorrente è che Travaglio è un uomo amorale/immorale e che per
questo egli scrive “male, malissimo”. La sua scrittura “questurina” ha successo, riconosce Manconi, ma solo “perché
è sommamente corriva, blandisce i più consolidati stereotipi e titilla quel
senso comune che (sintetizzo brutalmente Antonio Gramsci) è la negazione del
buon senso”. La scrittura di Travaglio è brutta “perché è, appunto, quella di un moralista che fatalmente diventa immorale, dal momento
che non conosce le lacerazioni della vita reale, bensì solo i codici che
vorrebbero imprigionarla. Ne discende inevitabilmente un vocabolario povero e
sciatto, ordinario e cupo e una prosa ferrigna e claustrofobica”.
Il povero Manconi, con questo scialo di
aggettivi micidiali, vuole darsi la carica per arrivare alla conclusione che un
ragionamento sobrio e lineare non gli consentirebbe di dimostrare: l’urgente
necessità di abolire i codici, i quali imprigionano la vita e ignorano le sue dolorose
lacerazioni.
Nella prosa di Travaglio, continua
Manconi con un alto volo pindarico, non c’è “nulla della sregolatezza anarcoide di un Walter Chiari: qui siamo nello
spazio linguistico di un cinismo faceto,
forse efficacissimo, eppure dannatamente conventicolare”.
Non sono gli aggettivi e gli avverbi che
mancano al prode Manconi!
E continua imperterrito: nella prosa di
Travaglio, “soprattutto, non c’è mai il
dramma, mai la durezza della contraddizione radicale e l’asprezza del dilemma etico. C’è al più l’esercizio
petulante della criticuccia, l’elenco acido dei vizi altrui, il livore che si
soddisfa nel cogliere qualcuno in fallo”.
Passi pure il termine ‘criticuccia’, che vorrebbe
alludere a un gioco da asilo infantile, ma il pronome ‘qualcuno’ è una perfida
falsificazione. Non si tratta di un ‘qualcuno’ qualsiasi: dietro quel ‘qualcuno’,
Manconi vuol nascondere fior di politici e di amministratori.
Lo studioso di sociologia continua baldanzosamente:
“È
come se fossimo in una brillante commedia inglese, prima che John Osborne irrompesse sulla scena. O, piuttosto, siamo
nel rutilante musical degli Immoralisti, dove non c'è traccia dell'intensità
tragica del personaggio di André Gide, ma solo
la futilità spassosa del gossip che si vorrebbe controinformazione e che si
traveste da intransigenza”.
A questo punto, dovrebbe già essere
chiaro che Manconi nei suoi flussi di pensiero non sa seguire un filo logico e
che, spinto da una cultura confusa e
raccogliticcia, fa continuamente delle osservazioni incongrue e peregrine, le
quali, a paragone dei sobri e stringati articoli del cronista giudiziario
Travaglio (dal cui stile il senatore avrebbe solo da imparare), se non fanno ridere, mettono
in imbarazzo.
Ma Manconi, nonostante la sua
consapevolezza del “dilemma etico”, non dubita mai di se stesso e prosegue:
“quello
sguardo inquisitore sembra passare sempre attraverso uno spioncino. Sembra
sempre furtivo e rubato, ringhioso e rapace: sempre espressione di rivalsa
sociale e di frustrazione livorosa”.
Manconi usa un linguaggio morboso ed
enfatico che toglie ogni fondatezza alle cose che dice.
Ma ecco una affermazione della quale
Manconi, limitato dalla sua angustia mentale e trascinato dalla sua avversione,
non coglie la gravità:
“Ma
il tutto rimane all’altezza del buco della serratura, anche quando al di là
della porta c’è uno scenario pubblico, la sfera politica, lo Stato”.
Vorremmo che l’esperto di
fenomeni politici riflettesse su questo punto: uno Stato le cui attività sono tanto
‘segrete’, che per conoscerle bisogna indagarle da uno spioncino, dal buco
della serratura, che razza di Stato democratico è? Per rispettare il
codice etico dei buonisti, bisognerebbe allora astenersi dal mettere l’occhio a quello
spioncino e lasciare che la casta politica (lo stato ormai è la casta) custodisca per sempre i suoi segreti?
Ma la critica più falsa e fuorviante di
Manconi è l’accusa a Travaglio di non avere “consapevolezza di quanto sia
tragico il conflitto tra bene e male”, di non conoscere “l’asprezza del dilemma
etico e le lacerazioni della vita morale”.
Manconi pretende che un cronista giudiziario, che fa il suo mestiere di denunciare il crimine e difendere la legalità, assomigli a Tolstoj e a Dostoevskij, che sia un teologo come lui.
En passant, osservo che le parole ‘legalità e difesa della legalità’ non
ricorrono mai nei quattro articoli di Manconi che ho preso in considerazione. Travaglio
non è tenuto a macerarsi nei dubbi morali come il curato di Bernanos (che soffriva realmente e intimamente e non sbandierava la sua coscienza ai quattro venti, come fanno i buonisti), ma Manconi, sia come semplice cittadino che a
maggior ragione come senatore della repubblica, sarebbe tenuto a occuparsi della democrazia e
della legalità.
Solo partendo dal presupposto che Travaglio, oltre che cronista, debba
essere anche un filosofo, Manconi può rimproverargli tutte le colpe elencate negli arzigogolatissimi brani che seguono e che varrebbero al nostro
docente una sonora bocciatura anche all’esame di quinta ginnasio.
“A leggere la prosa giustizialista, anche quando scintillante, e
tanto più quando tetra (come spesso accade), si ha invece la sensazione che “il
combattimento tra il Bene e il Male sia né più né meno che quello tra Antonio
Ingroia e Giovanni Conso”.
Manconi legge gli articoli di
Travaglio come se fossero la Divina Commedia e non si dà pace di non trovare
niente di ‘divino’ nella prosa del nostro cronista.
“ La
ragione è semplice: in quella prosa, il bene è qualcosa di ontologicamente
insediato, riconoscibile e attingibile. Basta sceglierlo, disporsi là, dire ciò
che va detto, fare ciò che va fatto. Il bene è un assunto, un principio
presupposto e assoluto, un ‘motore immobile’. Appartiene a un universo fisso e
da lì discende come una ‘rivelazione’, fino a rappresentare la costellazione di
uno schieramento e, di conseguenza, di quanti vi appartengono. Così il bene e la morale
(quale orientamento allo stesso bene) perdono qualunque accezione conflittuale
e qualunque dimensione drammatica per ridursi a una sorta di tessera di un club
esclusivo o di password di accesso a uno status. Ed è proprio qui che bene e morale si
rovesciano nel loro esatto contrario: nell’immoralità, appunto”.
Emessa la sua condanna, alla fine di
questo oscuro ragionamento, Manconi
conclude con soddisfazione, come per la dimostrazione di un teorema:
“Come volete che una simile concezione
non produca una brutta scrittura?”
Ma
allora, se Manconi ha invece una concezione della vita così profonda e morale, come fa, proprio lui, a scrivere in un modo tanto ingarbugliato e
artificioso?
Manconi osa addirittura ricordarci “che Nanni Moretti e Ludwig Wittgenstein hanno
detto, con parole appena diverse, che chi pensa male parla (scrive) male”.
Ma, piuttosto, faccia tesoro lui di
questa bella citazione! Alla quale io posso aggiungere i moniti di Cicerone e di
Bruno Vespa, di Schopenhauer e di Beppe Severgnini.
Con un altro brano tortuoso,
Manconi ribadisce la sua critica ai giornalisti giustizialisti e svolge un
ragionamento che sembra concludersi con una richiesta di indulgenza plenaria
per chi ha peccato.
Dopo aver accennato alla “profonda
immoralità dei [sedicenti] moralisti”, continua:
“ Essa [l'immoralità] è tale perché si
basa sull'idea (davvero diabolica in senso proprio) che il bene sia allocato in
una sede fisica definita e delimitata, alla quale corrispondono una condizione
psicologica, uno spazio mentale e una dimensione della vita sociale.
Dentro
quei confini si insedia il bene come autorità morale e principio giudicante:
accedervi significa stare dalla parte e sotto la tutela e nella sfera d'azione
dello stesso Bene. Uscirne perché sospettato di corrività o corruzione
significa passare dalla parte del torto e del Male. E' quanto accade a chi, per
le più diverse ragioni, viene "epurato" o a chi si sottrae a quella
toponomastica virtuale e virtuosa, dove il bene e il male sono altrettante
caselle di un gioco da tavolo, e sceglie di stare nel tumulto del mondo reale.
Quello dove la morale non è un assunto scontato né un privilegio ereditario. E',
piuttosto, un percorso accidentato, fatto di scelte sempre difficili e talvolta
ambigue, errori e passi falsi; e dove il bene massimo che si possa raggiungere
corrisponde né più né meno che al male minore”.
I
nostri politici e amministratori, sempre esposti alle tentazioni, non potrebbero desiderare una morale più
indulgente e cristiana di questa: la grande morale dei tarallucci e vino.
Che
Travaglio sia “un amorale (e, talvolta, un immorale) truccato da moralista”, Manconi lo conferma e lo spiega
ancora meglio ai lettori con questa lezioncina: “Il moralismo, si sa, può avere una sua funzione virtuosa, ma solo fino
a quando è espressione di una concezione tragica dell’esistenza, segnata da un
profondo pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla sua vocazione al male… In
Travaglio nulla di tutto ciò… A quel punto il moralista già si è fatto
immorale, perché si presuppone irriducibilmente estraneo alla fragilità umana e
al di sopra di essa”.
Definirei
questi discorsi con un’espressione di Luigi Russo: “flaccidezze letterarie”,
oppure fantasticherie sentimentali condite con un bel po’ di mala fede. Non si può
criticare un cronista giudiziario che difende con passione la legalità, perché
nei suoi articoli non c’è l’eco della fragilità umana. Stiamo forse parlando
delle tragedie di Shakespeare?
Non
prendo quasi in considerazione altre piccole accuse di Manconi: che Travaglio è
un gerontofobo, che non sa far ridere, che nessuno gli vuole bene, che è
speculare a Berlusconi.
Manconi
vede una “simbiosi perfetta tra
Berlusconi e Travaglio: stessa accidia morale (ilare nel primo, tetra nel
secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga
insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza”.
Solita
prosa artificiosa, con scialo di aggettivi e sostantivi forti. Questa simbiosi
perfetta, poi, non impedisce a Manconi di scrivere sul Foglio. Ma si capisce: lui
non è un manicheo e ha ben consapevolezza di quanto sia aspro il dilemma etico!
Negli
articoli del nostro professore-senatore non c’è una frase, un'idea, una
parola, una citazione che siano valide e bene espresse. Tutto è esagerato, confuso,
artificioso, enfatico, falso. Tutto sembra procedere da una cultura disparata e
posticcia che ignora la disciplina della logica e non conosce la realtà. Manconi dimostra di non avere il sentimento della realtà.
Scrive
delle cose assurde: Giovanardi e Travaglio sarebbero, “come ognuno può vedere [??], due
personalità estremamente simili per tratti culturali e meccanismi
comportamentali, per dispositivi linguistici e incontinenza gestuale, per tic e
manie. E, soprattutto, per quel medesimo sguardo torvo e sordido che rivolgono
agli esseri umani”.
Manconi
parla usando, da un lato, il linguaggio dei manuali universitari, senza un minimo di
rielaborazione, dall’altro, aggettivi trovati nei romanzi d’appendice.
E
conclude il suo articolo del 27 giugno con immagini e parole apocalittiche:
“Mi è totalmente estraneo l’universo
concentrazionario e coercitivo di Marco Travaglio; e la sua concezione
reazionaria e regressiva della società, paranoicamente presentata come una
“Italia a delinquere”, dove la politica è ‘liquame’ ”.
Può
sembrare sorprendente che una “autorità nazionale del politicamente correttissimo”,
un uomo sensibile alle “lacerazioni della vita reale”, si esprima con un linguaggio
così violento e irrazionale e così vuoto. Io invece lo trovo tipico e non me ne
stupisco. E’ già successo nella storia che
giacobini ed anarcoidi (Walter Chiari non c’entra) si siano trasformati
in teologi e gesuiti.
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AGGIORNAMENTO del 22 luglio 2020
Dopo la rottura, un anno fa, dell'alleanza di governo Lega-Movimento 5 Stelle e il passaggio disinvolto e (per chi li aveva votati) innaturale dei 5 Stelle ad una alleanza col Partito democratico e il partitino di Matteo Renzi, il Fatto quotidiano è diventato un giornale strettamente governativo. Il suo direttore, all'inizio di questo drammatico cambiamento, mi pareva irriconoscibile e smemorato, ma presto ho trovato nella sua faziosità e nel pesante e rozzo sarcasmo verso critici e oppositori il pieno sviluppo, anzi l'esplosione, di tutte le caratteristiche denunciate da Luigi Manconi, al quale chiedo scusa. Aveva ragione lui: Travaglio è un giornalista senza cultura, cioè arido e senza cuore.
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AGGIORNAMENTO del 22 luglio 2020
Dopo la rottura, un anno fa, dell'alleanza di governo Lega-Movimento 5 Stelle e il passaggio disinvolto e (per chi li aveva votati) innaturale dei 5 Stelle ad una alleanza col Partito democratico e il partitino di Matteo Renzi, il Fatto quotidiano è diventato un giornale strettamente governativo. Il suo direttore, all'inizio di questo drammatico cambiamento, mi pareva irriconoscibile e smemorato, ma presto ho trovato nella sua faziosità e nel pesante e rozzo sarcasmo verso critici e oppositori il pieno sviluppo, anzi l'esplosione, di tutte le caratteristiche denunciate da Luigi Manconi, al quale chiedo scusa. Aveva ragione lui: Travaglio è un giornalista senza cultura, cioè arido e senza cuore.
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