Nella medesima intervista
Renzo Piano fa delle dichiarazioni che sembrano, anch’esse, da ragionier Brambilla. A proposito della
sua nomina a senatore a vita, dopo aver detto che “il presidente Napolitano è una persona che ammiro”, come se Napolitano
fosse il megadirettore galattico di Fantozzi, Piano dichiara con candida presunzione: “Quando Napolitano mi ha chiamato, ho
pensato: come senatore potrei impegnarmi a difendere la bellezza del Paese”.
Ma Renzo Piano è proprio sicuro
di sapere quale sia la bellezza del paese?
Intanto le sue soluzioni per
salvare le periferie (“portiamoci tribunali,
biblioteche, ospedali, teatri, ecc.”) costituiscono una rivoluzione
del tutto astratta, perché realizzabile solo in un progetto a tavolino. Inoltre, se anche questa astratta rivoluzione ("mettiamo questo là, spostiamo quello qua") si potesse per
miracolo realizzare, lascerebbe le periferie tali e quali, senza risolverne
i problemi veri.
Già negli anni Trenta Lewis Mumford, urbanista e sociologo mite e
profondo, aveva scritto che “i progressi
urbanistici non sono il prodotto di piccole riforme limitate: il compito
dell’urbanistica implica il più vasto compito di una riforma della nostra
civiltà. Noi dobbiamo trasformare i modi parassitari e briganteschi di vita che
oggi purtroppo predominano” (La cultura delle città, Milano 1954)
Il nuovo palazzo di giustizia
di Firenze (a parte la notevole bruttezza) ha forse, grazie alla sua specifica funzione, reso il quartiere di Novoli un
po’ meno periferia?
E l’ospedale di Torregalli,
al confine fra Firenze e Scandicci, benché debba anch’esso farsi perdonare la
sua bruttezza, ha, sì, offerto ai rioni circostanti, l’indubbia comodità di
avere un ospedale vicino, ma tutta l’ampia zona che vi gravita intorno continua
ad avere, come prima, le caratteristiche della periferia, cioè trasporti
pubblici scadenti e “un ambiente crudo, sregolato, con una vita sociale ristretta, angusta e
delusiva” (Mumford).
Dove, poi, arrivano i grandi supermercati
e i centri commerciali, che nascono da per tutto come funghi, intorno cresce il deserto e tutto diventa
periferia.
Il simbolo della città è
ormai diventato il centro commerciale, che accoglie e subordina a sé molte altre
attività, anche culturali. Nella vita della città, che prima aveva il carattere
di una sinfonia (Mumford), oggi prevale un solo motivo: vendere, comprare e far
soldi. Sembra paradossale, ma anche i centri storici, non avendo quasi più
residenti e offrendo solo servizi che soddisfino i turisti, sono diventati
periferie. Lo riconosce lo stesso Renzo Piano, che dice, senza però troppa
pena e come semplice e quasi indifferente constatazione: “Ora i centri storici corrono il
rischio di trasformarsi in shopping center, in oasi per ricchi”.
E dunque non bisogna salvare,
cioè recuperare ad una dimensione umana, solo le periferie, ma anche i centri
storici. Per far questo bisognerebbe rifondare
l’intera città, ripensare il lavoro, l'effetto deformante della televisione, il significato della scuola e di quell'unica religione che è diventato il tifo per il gioco del calcio. Sarebbe compito degli architetti e degli urbanisti affermare l’essenza
umana dell’uomo. Compito che è allegramente tradito. Noi sappiamo bene che questo compito, per
quanto possa essere vasto l’orizzonte della nostra immaginazione, resterà un’utopia. Però non ce ne affliggiamo troppo, perché questa utopia, la consapevolezza, cioè, che la politica e l’urbanistica dovrebbero avere come scopo il rispetto per l'uomo, ci dispensa almeno dal perdere tempo con proposte così inadeguate da sembrare giochi di prestigio.
(continua al post successivo)
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