giovedì 27 febbraio 2014

Massimo D'Alema interviene alla trasmissione Otto e mezzo.


Quando per la prima volta nel 1994 Berlusconi si presentò con il suo partito, inventato in tutta fretta, alle elezioni politiche, io non lo avvertii subito come un sicuro vincitore. Benché fossi già un cinquantenne abbastanza navigato,  ero fiducioso che il paese avesse sufficienti anticorpi per respingere le suggestioni televisive. Man mano che si avvicinavano le votazioni, però,  perdevo sempre più quella tranquilla fiducia.
Guardavo ogni sera, mentre cenavamo in famiglia, uno spettacolo presentato da Rosario Fiorello, Karaoke. Su un palco eretto in una piazza di città sempre diverse, si avvicendavano uomini e donne della folla per cantare una canzone. Cominciarono a impressionarmi la quantità di gente che riempiva quelle piazze d’Italia e il livello dell’entusiasmo popolare, per non dire di delirio, per uno spettacolo così mediocre.
L’Italia era cambiata profondamente e non me ne ero accorto. Sentii che Berlusconi avrebbe vinto...
Dopo la strepitosa vittoria del Cavaliere, fummo in tanti a rimanerne sconcertati. Che cosa stava accadendo nel nostro paese? Tutti cercavamo una spiegazione. Poco tempo dopo (qualche settimana o forse un paio di mesi), arrivò Massimo D’Alema al Palazzo dei Congressi. Il grande anfiteatro era stracolmo. Io e mia moglie, accorsi anche noi per ascoltare una analisi che ci chiarisse la confusione politica e culturale da cui ci sentivamo travolti, eravamo rannicchiati su una poltroncina nel grande corridoio esterno, anch’esso pieno di gente, che corre intorno alla sala centrale, e ascoltavamo D’Alema dall’altoparlante.
D’Alema fece una lunga introduzione generica e piena di affermazioni di principio, ma proprio mentre noi spalancavamo le orecchie aspettando che arrivasse al nòcciolo del problema, ci accorgemmo che il comizio era già terminato.
Qualche anno dopo, lo scrittore Corrado Stajano criticò in un suo libro la crudele scortesia con cui D’Alema aveva trattato allora il segretario sconfitto, Achille Occhetto, e dette del nuovo segretario una definizione che mi sembrò calzante ed espressiva sia della sua gesticolazione a scatti che della sua aridità: un omino fatto di filo di ferro.
Per me D’Alema cessò quasi subito di essere interessante, e anche se per anni è stato vantato da Repubblica come il politico più intelligente del suo partito, mi bastava leggere dieci righe scritte da lui per sbadigliare di noia.
Ora, a distanza di vent’anni esatti, dopo che Matteo Renzi ha scalato il potere sparando raffiche di trovate pubblicitarie, sono stato curioso di ascoltarlo alla trasmissione di Lilli Gruber, ma ho avuto la sorpresa di trovarlo legnoso e quasi imbalsamato, simile (salvo uno o due particolari trascurabili) ai dirigenti sovietici descritti da Kirill Chenkin nel libro ‘Andropov: ritratto di uno zar’.
“Hanno tutti la medesima faccia: decenni di mimica partitica ne hanno fatto tanti gemelli. Sguardo opaco, espressione solenne-impenetrabile del viso appesantito e curato, segnato dall’impronta indelebile di una mancanza di cultura sicura e soddisfatta di sé”.
 D’Alema alle domande di Lilli Gruber non ha risposto niente di chiaro. Con la mimica stanca di un uomo che vede lontano, che aveva previsto tutto e  che non si meraviglia di niente e soprattutto che è molto soddisfatto di se stesso, a ogni domanda ha cominciato a rispondere con un esitante, incerto e indifferente: “Bah! vede…”, concludendo sempre con le solite generiche frasi di circostanza, che ormai sono diventate una lingua incomprensibile.
Accanto a lui, perfino Mario Sechi, giornalista tutt’altro che vivace e divertente, è sembrato sciolto e malizioso, tanto che ad un certo momento si è rivolto non so se alla conduttrice o ai telespettatori dicendo: “Traduco Massimo D’Alema”; e lui si è lasciato tradurre con la degnazione e l'immobilità di un oracolo.


Aggiornamento.
Al Congresso del Partito socialista europeo tenuto a Roma il 1 marzo, Massimo D’Alema ha parlato, come aveva fatto due giorni prima alla trasmissione ‘Otto e mezzo’, dei populismi e di quanto siano pericolosi per le istituzioni democratiche. Oltre a non voler ammettere che le istituzioni sono diventate i palazzi di un potere che è nemico del popolo e lo disprezza, il grande statista indica contro i populismi una direzione di lotta puerile come un lapsus freudiano (testuale: “Dobbiamo portare il popolo dalla nostra parte”).  Mi viene in mente l'ironica esclamazione di uno storico, che sembra fatta apposta per essere messa sulla bocca di dirigenti come D'Alema: quei cattivi fatti che rovinano le nostre belle idee!

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