Quando per la prima volta nel
1994 Berlusconi si presentò con il suo partito, inventato in tutta fretta, alle
elezioni politiche, io non lo avvertii subito come un sicuro vincitore. Benché
fossi già un cinquantenne abbastanza navigato,
ero fiducioso che il paese avesse sufficienti anticorpi per
respingere le suggestioni televisive. Man mano che si avvicinavano le
votazioni, però, perdevo sempre più
quella tranquilla fiducia.
Guardavo ogni sera, mentre
cenavamo in famiglia, uno spettacolo presentato da Rosario Fiorello, Karaoke. Su un palco eretto in una
piazza di città sempre diverse, si avvicendavano uomini e donne della folla per
cantare una canzone. Cominciarono a impressionarmi la quantità di gente che
riempiva quelle piazze d’Italia e il livello dell’entusiasmo popolare, per non
dire di delirio, per uno spettacolo così mediocre.
L’Italia era cambiata
profondamente e non me ne ero accorto. Sentii che Berlusconi avrebbe vinto...
Dopo la strepitosa vittoria
del Cavaliere, fummo in tanti a rimanerne sconcertati. Che cosa stava accadendo
nel nostro paese? Tutti cercavamo una spiegazione. Poco tempo dopo (qualche
settimana o forse un paio di mesi), arrivò Massimo D’Alema al Palazzo dei
Congressi. Il grande anfiteatro era stracolmo. Io e mia moglie, accorsi anche
noi per ascoltare una analisi che ci chiarisse la confusione politica e
culturale da cui ci sentivamo travolti, eravamo rannicchiati su una poltroncina
nel grande corridoio esterno, anch’esso pieno di gente, che corre intorno alla
sala centrale, e ascoltavamo D’Alema dall’altoparlante.
D’Alema fece una lunga
introduzione generica e piena di affermazioni di principio, ma proprio mentre
noi spalancavamo le orecchie aspettando che arrivasse al nòcciolo del problema,
ci accorgemmo che il comizio era già terminato.
Qualche anno dopo, lo
scrittore Corrado Stajano criticò in un suo libro la crudele scortesia con cui
D’Alema aveva trattato allora il segretario sconfitto, Achille Occhetto, e
dette del nuovo segretario una definizione che mi sembrò calzante ed espressiva
sia della sua gesticolazione a scatti che della sua aridità: un omino fatto di filo di
ferro.
Per me D’Alema cessò quasi
subito di essere interessante, e anche se per anni è stato vantato da Repubblica come il politico più
intelligente del suo partito, mi bastava leggere dieci righe scritte da lui per
sbadigliare di noia.
Ora, a distanza di vent’anni
esatti, dopo che Matteo Renzi ha scalato il potere sparando raffiche di trovate
pubblicitarie, sono stato curioso di ascoltarlo alla trasmissione di Lilli Gruber, ma ho avuto la sorpresa di trovarlo legnoso e quasi imbalsamato, simile (salvo uno o due particolari trascurabili) ai dirigenti sovietici
descritti da Kirill Chenkin nel libro ‘Andropov: ritratto di uno zar’.
“Hanno tutti la medesima faccia: decenni di mimica
partitica ne hanno fatto tanti gemelli. Sguardo opaco, espressione
solenne-impenetrabile del viso appesantito e curato, segnato dall’impronta
indelebile di una mancanza di cultura sicura e soddisfatta di sé”.
D’Alema alle domande di Lilli Gruber non ha
risposto niente di chiaro. Con la mimica stanca di un uomo che vede lontano, che aveva
previsto tutto e che non si meraviglia
di niente e soprattutto che è molto soddisfatto di se stesso, a ogni domanda ha
cominciato a rispondere con un esitante, incerto e indifferente: “Bah! vede…”, concludendo sempre con le solite generiche frasi di circostanza, che ormai sono diventate una lingua incomprensibile.
Accanto a lui, perfino Mario
Sechi, giornalista tutt’altro che vivace e divertente, è sembrato sciolto e
malizioso, tanto che ad un certo momento si è rivolto non so se alla
conduttrice o ai telespettatori dicendo: “Traduco Massimo D’Alema”; e lui si è
lasciato tradurre con la degnazione e l'immobilità di un oracolo.
Aggiornamento.
Al Congresso del Partito socialista europeo tenuto a Roma il 1 marzo,
Massimo D’Alema ha parlato, come aveva fatto due giorni prima alla trasmissione ‘Otto
e mezzo’, dei populismi e di quanto
siano pericolosi per le istituzioni democratiche. Oltre a non voler ammettere che le istituzioni sono diventate i palazzi di un potere che è nemico del popolo e lo disprezza, il grande statista indica contro i populismi una direzione di lotta puerile come un lapsus freudiano (testuale: “Dobbiamo portare il popolo dalla nostra
parte”). Mi viene in mente l'ironica esclamazione di uno storico, che sembra fatta apposta per essere messa sulla bocca di dirigenti come D'Alema: quei cattivi fatti che rovinano le nostre belle idee!
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