Per farsi un’idea più precisa
della novità rappresentata da Matteo Renzi, nuovo segretario del Partito
democratico e, fra poche ore, nuovo capo del governo, può essere utile osservare le
facce delle donne e degli uomini, giovani e nuovi, di cui si è circondato.
Le donne, belle e disinvolte in
modo convenzionale, sembrano delle madonnine automatiche. Nei loro interventi
ai dibattiti televisivi non si sente né lo sforzo né il calore di un discorso
argomentato, ma solo la convinzione rigida, e però espressa in modo soave, di una filastrocca imparata a
memoria.
Gli uomini parlano con la fluida scioltezza di un annuncio pubblicitario. Sono levigati come agenti immobiliari e le loro facce sono anonime
come le facce ricostruite nei film gialli con l’identikit.
Il lungo processo, studiato
una quarantina di anni fa da Paolo Sylos Labini, attraverso il quale il vecchio
partito comunista stava diventando il principale partito del ceto medio, e soprattutto
delle sue categorie superiori, non solo si è definitivamente compiuto, ma ha finalmente acquistato una perfetta coerenza
fra forma e contenuto, fra l’aspetto estetico e la vacuità dei programmi.
(Vacuità che non esclude la determinazione con cui si fanno regali ai potenti:
per esempio alle banche).
Le facce dei politici hanno
cominciato a sembrarmi importanti già ai tempi di Bettino Craxi, una trentina di anni
fa. All’improvviso apparve sulla scena una galleria di personaggi, mai visti prima, che si
esprimevano in un modo insolito e sconcertante per chi aveva conosciuto e rispettato uomini come Riccardo Lombardi, Fernando Santi,
Oreste Lizzadri, Nenni e De Martino.
Dopo il crollo del potere craxiano, Berlusconi ha portato sulla
scena una folla di politici nuovi (e meno nuovi: molti ex socialisti del periodo precedente) che con le loro facce spiegano e illustrano i cambiamenti sociali e
culturali del paese molto meglio di un libro.
Ora è il momento di Renzi.
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