Questi scritti di Stefan Zweig
non hanno niente di accademico e pochissimo di aneddotico. Non si potrebbero,
anzi, nemmeno considerare dei veri saggi di critica letteraria. Sono molto di
più: sono momenti di comunione spirituale con scrittori e artisti sia contemporanei
che appartenenti al passato anche lontano. Benché siano pieni di affetto, di
comprensione e di ammirazione (tranne, mi sembra, quello su Sainte-Beuve),
questi saggi non contengono nemmeno un pizzico di retorica. Ciascuno di essi è
costruito su una originale illuminazione, che lo rende acuto, penetrante e
indispensabile al lettore che aspira alla elevatezza dello spirito e alla
comprensione dell’arte.
Per esempio, queste
osservazioni su James Joyce offrono una chiave di comprensione che forse mi
aiuterà, dopo vari tentativi falliti, a terminare la lettura del suo
capolavoro.
“Fin dalla sua giovinezza, un
sentimento di odio cova in James Joyce; egli soffre di una malattia antica, di
una ferita dell’anima. E’ a Dublino, sua città natale, che questa ferita gli è
stata inferta dai borghesi che egli odia, dai preti e dai professori, che egli
odia con la stessa violenza, e da qualsiasi altra persona appena frequentata.
Tutto ciò che questo grande genio scrive, lo scrive per vendicarsi di Dublino
[…] Fra le millecinquecento pagine di Ulisse, non se ne trovano dieci che
abbiano un tono di cordialità, di abbandono confidenziale, di bontà, di
amabilità; sono invece tutte ciniche e sarcastiche; sono dominate da un
sentimento di rivolta che ha la potenza di un uragano”. Nelle pagine di Joyce
c’è “una violenza vibrante, trepidante, ribollente e quasi epilettica, con la
quale quest’uomo sputa il suo libro in faccia al mondo”.
E come sono veri e simpatici i
ricordi del suo primo incontro con Montaigne, ad appena vent’anni!
“Non provavo simpatia neppure
per la sua saggezza mite e tiepida. Essa veniva a me troppo presto”. Nella Europa
del primo Novecento, che sembrava libera e tranquilla, il Montaigne
vessillifero della libertà individuale appariva ai giovani un artista piacevole
e un erudito interessante ma del tutto anacronistico.
“Per apprezzare l’arte e la
sapienza di vita di Montaigne, per comprendere la necessità della sua lotta
alla conquista del ‘soi-même’, bisognava che si verificasse una situazione
analoga a quella della sua esistenza medesima. Dovemmo anche noi, al pari di
lui, subire una delle terrificanti ricadute del mondo dopo una delle più
mirabili sue ascese. Bisognò che a frustate ci allontanassero dalle nostre
speranze ed esperienze e attese ed esaltazioni, che ci ricacciassero sino al
punto in cui si finisce per difendere il proprio io nudo, la propria irripetibile
e irritrovabile esistenza. Solo in simile fraternità di destino Montaigne
divenne per me insostituibile aiuto, conforto e amico. Quale sciagurata
somiglianza vi è infatti fra la sua e la nostra sorte! […] Per me oggi di
Montaigne mi interessa soltanto questo: in qual modo egli in un’età simile alla
nostra si sia reso interiormente libero… Lo vedo come Santo Padre, un patrono e
un amico di ogni ‘homme libre’, come il maestro migliore in questa disciplina
nuova e pure eterna di conservare se medesimi contro tutti e contro tutto”.
Con gli altri autori
raccontati Stefan Zweig ha un rapporto altrettanto intenso che con Montaigne, ma
qualche volta (con Émile Verhaeren, con Hugo von Hofmannsthal, con Rainer Maria
Rilke) ancora più intenso, più personale e intimo.
La cultura di ciascun paese
europeo è parte insostituibile della storia familiare di questo grande intellettuale che si muove per l’Europa come
in casa propria. Sono commoventi l’affetto e il rispetto che egli ha verso i
grandi spiriti suoi contemporanei, a qualsiasi paese appartengano. Nelle sue
pagine il lettore avverte con piacere
quasi fisico il legame consapevole e, direi, orgoglioso di Zweig con la
tradizione culturale di tutto il continente.
Vedere questa comunità ideale
disintegrarsi è stata la tragedia della sua vita.
Io non so trovare nel nostro
paese intellettuali che abbiano difeso,
nel periodo tragico vissuto da Zweig, con la sua stessa lucidità e passione, i
valori morali della cultura europea. Mi viene in mente il solo Luigi Russo,
mentre l’opera di Benedetto Croce mi lascia freddo.
Già all’inizio degli anni
Trenta Luigi Russo scriveva così del “nostro nuovo umanesimo di novecentisti”:
“La nostra concezione cosmica
dell’arte… tende ad instaurare, in accordo con le più sane tendenze europee, la
teoria di un’arte che sia ordine, educazione, tradizione, esperienza storica,
consapevole cultura, armonia, letteratura, in una parola classicità” (La
critica letteraria contemporanea, vol. 1°).
E’ paradossale che, oggi che i
paesi d’Europa (dopo un processo di oltre mezzo secolo) hanno realizzato forme
assai spinte di integrazione burocratica, economica e finanziaria, di quella
comunità culturale che era il sogno e il paradiso di Stefan Zweig non esistano
più nemmeno le macerie. E il nuovo umanesimo propugnato da storici come Russo
ha forse dato un debole segno di vita con la breve stagione del neorealismo, ma è
stato dimenticato e cancellato prima ancora che assumesse una fisionomia
coerente.
Oggi l’unico intellettuale europeo
che riconosco è Alfonso Berardinelli, la cui amara passione, però, si esercita
(e non potrebbe fare diversamente) solo nella critica dei falsi miti.
Tra questi, accanto all’internazionale
e onnipresente Umberto Eco (che in verità, più che internazionale, considero un
apolide), merita una menzione speciale Susanna Tamaro.
Sul Corriere della Sera del 17
gennaio scorso, in uno scialbo dialogo con Claudio Magris sul proprio ultimo
libro, la Tamaro
ha dichiarato senza arrossire:
“Credo che la mia letteratura risenta parecchio di questo mio sguardo da entomologo. E ancora, [mi chiedo:] come è
possibile che da una stessa famiglia siano nati due scrittori di fama mondiale
[il corsivo è mio], dato che sono pronipote di Italo Svevo e che sono
cresciuta vicino a sua figlia Letizia, di cui
peraltro porto il secondo nome? Che
legame misterioso c’è fra queste cose?
Ecco,per me ‘Ogni angelo è tremendo’ è stato un po’ come scrivere un thriller — seguire gli indizi per
cercare di capire dove si nasconde il
colpevole”.
Scoraggiato da tante stupidaggini
(non finisco di stupirmi dei pensierini dozzinali di questa scrittrice di
fama mondiale dallo sguardo di entomologo!), riprendo da Zweig le ultime parole
del suo commiato da Rilke e dico: “Gloria e venerazione a te, Stefan Zweig,
amico e maestro!”.
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