sabato 26 gennaio 2013

Stefan Zweig (1881-1942), Incontri e amicizie, Mondadori, 1950. - Souvenirs et rencontres, Grasset, 1951. - Un grande intellettuale dal cuore europeo.



















Questi scritti di Stefan Zweig non hanno niente di accademico e pochissimo di aneddotico. Non si potrebbero, anzi, nemmeno considerare dei veri saggi di critica letteraria. Sono molto di più: sono momenti di comunione spirituale con scrittori e artisti sia contemporanei che appartenenti al passato anche lontano. Benché siano pieni di affetto, di comprensione e di ammirazione (tranne, mi sembra, quello su Sainte-Beuve), questi saggi non contengono nemmeno un pizzico di retorica. Ciascuno di essi è costruito su una originale illuminazione, che lo rende acuto, penetrante e indispensabile al lettore che aspira alla elevatezza dello spirito e alla comprensione dell’arte.
Per esempio, queste osservazioni su James Joyce offrono una chiave di comprensione che forse mi aiuterà, dopo vari tentativi falliti, a terminare la lettura del suo capolavoro.
“Fin dalla sua giovinezza, un sentimento di odio cova in James Joyce; egli soffre di una malattia antica, di una ferita dell’anima. E’ a Dublino, sua città natale, che questa ferita gli è stata inferta dai borghesi che egli odia, dai preti e dai professori, che egli odia con la stessa violenza, e da qualsiasi altra persona appena frequentata. Tutto ciò che questo grande genio scrive, lo scrive per vendicarsi di Dublino […] Fra le millecinquecento pagine di Ulisse, non se ne trovano dieci che abbiano un tono di cordialità, di abbandono confidenziale, di bontà, di amabilità; sono invece tutte ciniche e sarcastiche; sono dominate da un sentimento di rivolta che ha la potenza di un uragano”. Nelle pagine di Joyce c’è “una violenza vibrante, trepidante, ribollente e quasi epilettica, con la quale quest’uomo sputa il suo libro in faccia al mondo”.
E come sono veri e simpatici i ricordi del suo primo incontro con Montaigne, ad appena vent’anni!
“Non provavo simpatia neppure per la sua saggezza mite e tiepida. Essa veniva a me troppo presto”. Nella Europa del primo Novecento, che sembrava libera e tranquilla, il Montaigne vessillifero della libertà individuale appariva ai giovani un artista piacevole e un erudito interessante ma del tutto anacronistico.
“Per apprezzare l’arte e la sapienza di vita di Montaigne, per comprendere la necessità della sua lotta alla conquista del ‘soi-même’, bisognava che si verificasse una situazione analoga a quella della sua esistenza medesima. Dovemmo anche noi, al pari di lui, subire una delle terrificanti ricadute del mondo dopo una delle più mirabili sue ascese. Bisognò che a frustate ci allontanassero dalle nostre speranze ed esperienze e attese ed esaltazioni, che ci ricacciassero sino al punto in cui si finisce per difendere il proprio io nudo, la propria irripetibile e irritrovabile esistenza. Solo in simile fraternità di destino Montaigne divenne per me insostituibile aiuto, conforto e amico. Quale sciagurata somiglianza vi è infatti fra la sua e la nostra sorte! […] Per me oggi di Montaigne mi interessa soltanto questo: in qual modo egli in un’età simile alla nostra si sia reso interiormente libero… Lo vedo come Santo Padre, un patrono e un amico di ogni ‘homme libre’, come il maestro migliore in questa disciplina nuova e pure eterna di conservare se medesimi contro tutti e contro tutto”.
Con gli altri autori raccontati Stefan Zweig ha un rapporto altrettanto intenso che con Montaigne, ma qualche volta (con Émile Verhaeren, con Hugo von Hofmannsthal, con Rainer Maria Rilke) ancora più intenso, più personale e intimo.
La cultura di ciascun paese europeo è parte insostituibile della storia familiare di questo grande  intellettuale che si muove per l’Europa come in casa propria. Sono commoventi l’affetto e il rispetto che egli ha verso i grandi spiriti suoi contemporanei, a qualsiasi paese appartengano. Nelle sue pagine il lettore avverte con  piacere quasi fisico il legame consapevole e, direi, orgoglioso di Zweig con la tradizione culturale di tutto il continente.
Vedere questa comunità ideale disintegrarsi è stata la tragedia della sua vita.
Io non so trovare nel nostro paese  intellettuali che abbiano difeso, nel periodo tragico vissuto da Zweig, con la sua stessa lucidità e passione, i valori morali della cultura europea. Mi viene in mente il solo Luigi Russo, mentre l’opera di Benedetto Croce mi lascia freddo.
Già all’inizio degli anni Trenta Luigi Russo scriveva così del “nostro nuovo umanesimo di novecentisti”:
“La nostra concezione cosmica dell’arte… tende ad instaurare, in accordo con le più sane tendenze europee, la teoria di un’arte che sia ordine, educazione, tradizione, esperienza storica, consapevole cultura, armonia, letteratura, in una parola classicità” (La critica letteraria contemporanea,  vol. 1°).
E’ paradossale che, oggi che i paesi d’Europa (dopo un processo di oltre mezzo secolo) hanno realizzato forme assai spinte di integrazione burocratica, economica e finanziaria, di quella comunità culturale che era il sogno e il paradiso di Stefan Zweig non esistano più nemmeno le macerie. E il nuovo umanesimo propugnato da storici come Russo ha forse dato un debole segno di vita con la breve stagione del neorealismo, ma è stato dimenticato e cancellato prima ancora che assumesse una fisionomia coerente.
Oggi l’unico intellettuale europeo che riconosco è Alfonso Berardinelli, la cui amara passione, però, si esercita (e non potrebbe fare diversamente) solo nella critica dei falsi miti.
Tra questi, accanto all’internazionale e onnipresente Umberto Eco (che in verità, più che internazionale, considero un apolide), merita una menzione speciale Susanna Tamaro.
Sul Corriere della Sera del 17 gennaio scorso, in uno scialbo dialogo con Claudio Magris sul proprio ultimo libro, la Tamaro ha dichiarato senza arrossire:
Credo che la mia letteratura risenta parecchio di questo mio sguardo da entomologo. E ancora, [mi chiedo:] come è possibile che da una stessa famiglia siano nati due scrittori di fama mondiale [il corsivo è mio], dato che sono pronipote di Italo Svevo e che sono cresciuta vicino a sua figlia Letizia, di cui peraltro porto il secondo nome? Che legame misterioso c’è fra queste cose? Ecco,per me ‘Ogni angelo è tremendo’ è stato un po’ come scrivere un thriller — seguire gli indizi per cercare di capire dove si nasconde il colpevole”.
Scoraggiato da tante stupidaggini (non finisco di stupirmi dei pensierini dozzinali di questa scrittrice di fama mondiale dallo sguardo di entomologo!), riprendo da Zweig le ultime parole del suo commiato da Rilke e dico: “Gloria e venerazione a te, Stefan Zweig, amico e maestro!”.

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