Sono
stato, in passato, un lettore entusiasta di molti romanzi di Dickens che
ricordo con grande piacere e, per alcuni di essi, con sincera ammirazione.
Certo, anche se ero più giovane e inesperto, già allora mi davano fastidio le prolisse
divagazioni e gli intrecci romanzeschi che, in ciascuna opera, procedevano per
filoni separati e solo dopo una lunga serie di misteri e di travestimenti confluivano
finalmente in una storia unitaria, che era però troppo piena di coincidenze inverosimili.
“Più
che di romanzi si tratta di racconti di fate”, ha scritto Emilio Cecchi. Tuttavia
ho sempre ammirato il magnifico carattere visionario di molte di quelle invenzioni e la geniale
capacità di Dickens di deformare il linguaggio dei suoi personaggi, che
mostrano subito e con grandi effetti comici, appena aprono bocca, le loro
caratteristiche e i loro difetti.
Per
non essere da meno del mio amico Costantino Coppola, che me l’ha suggerito, e
poiché sono impegnato, prima di salutarli definitivamente, a leggere quanti più
posso dei libri comprati nel corso di oltre quarant’anni, ho letto ora il romanzo ‘Le
due città’. Sono arrivato alla fine della storia con grande fatica e immensa noia, che ho
sopportato solo perché mi sono imposto di leggere fino in fondo i libri iniziati per avere il piacere di
commentarli.
Mi
sembra che ‘Le due città’ abbia, del Dickens grande scrittore, solo i difetti.
Perciò
non trovo esagerato il sintetico commento di James Fitzjames Stephen (1829-1894),
che definì il romanzo, appena pubblicato a puntate sulla rivista ‘All the Year
Round’ (1859), “una pappa per gatti molto mal condita”, e anche “costruzione
mal congegnata per esporre paccottiglia di cattivo gusto” (vedi Wikipédia alla
voce: Dickens, Le conte de deux cités).
La
storia tenebrosa raccontata dal romanzo si svolge nell’arco di una trentina d’anni, quasi a cavallo della Rivoluzione francese, e si conclude all’apice del Terrore, nel 1793. La fonte di
Dickens pare sia stata unicamente l’opera sulla Rivoluzione scritta da Thomas
Carlyle nel 1837, opera che Dickens dice di aver letto infinite volte e che,
nella sua prefazione, definisce magnifica e insuperabile.
Arrancando
nella lettura de ‘Le due città’, ho avuto l’impressione che lo stile di
Dickens, già, in generale, prolisso e immaginoso fino al limite della
fumisteria, fosse diventato, in questo romanzo, insopportabilmente ‘carlyliano’.
Ma
com’era lo stile di Carlyle?
Hippolyte
Taine pubblicò nel 1864, quando Carlyle era ancora attivo e al culmine della
sua fama, un saggio su di lui (‘L’idéalisme anglais’) dove dà giudizi e
definizioni sorprendentemente acuti e attuali. Carlyle gli sembra un animale
straordinario, superstite di una razza perduta, specie di mastodonte smarrito
in un mondo che non è fatto per lui. Leggendolo, si rimane sconcertati. Tutto
in lui è nuovo: le idee, lo stile, il taglio delle frasi, persino la scelta
delle parole. Prende tutto alla rovescia, violenta tutto, espressioni e fatti.
I paradossi sono proposti come princìpi, il buon senso prende la forma
dell’assurdo: sembra di essere trasportati in un mondo sconosciuto i cui abitanti
camminano con la testa in giù e i piedi in aria, vestiti da arlecchino. Si ha
voglia di tapparsi le orecchie, si ha mal di testa, si è obbligati a decifrare
una lingua del tutto nuova. Carlyle non sa parlare con semplicità. Un fiume di
passione torbida arriva impetuoso in questo cervello traboccante, e il torrente
di immagini straripa trascinando con sé rifiuti e splendori. I venti volumi di
Carlyle, dice Taine, sono tutti composti di scene fosche e pittoriche,
collegate non da argomenti razionali, ma da esclamazioni e apostrofi. In lui
anche la storia (per es. la sua Storia della Rivoluzione francese) assomiglia a
un delirio.
(continua al post successivo)
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