martedì 13 novembre 2012

Charles Dickens, Le due città. B.U.R., 1959. - Thomas Carlyle, La Rivoluzione francese. Bietti, 1932. - Hippolyte Taine, L'idéalisme anglais: étude sur Carlyle. Paris, G. Baillière, 1864. - 1^ puntata.

 



Sono stato, in passato, un lettore entusiasta di molti romanzi di Dickens che ricordo con grande piacere e, per alcuni di essi, con sincera ammirazione. Certo, anche se ero più giovane e inesperto, già allora mi davano fastidio le prolisse divagazioni e gli intrecci romanzeschi che, in ciascuna opera, procedevano per filoni separati e solo dopo una lunga serie di misteri e di travestimenti confluivano finalmente in una storia unitaria, che era però troppo piena di coincidenze inverosimili.
“Più che di romanzi si tratta di racconti di fate”, ha scritto Emilio Cecchi. Tuttavia ho sempre ammirato il magnifico carattere visionario di molte di quelle invenzioni e la geniale capacità di Dickens di deformare il linguaggio dei suoi personaggi, che mostrano subito e con grandi effetti comici, appena aprono bocca, le loro caratteristiche e i loro difetti.
Per non essere da meno del mio amico Costantino Coppola, che me l’ha suggerito, e poiché sono impegnato, prima di salutarli definitivamente, a leggere quanti più posso dei libri comprati nel corso di oltre quarant’anni, ho letto ora il romanzo ‘Le due città’. Sono arrivato alla fine della storia  con grande fatica e immensa noia, che ho sopportato solo perché mi sono imposto di leggere fino in fondo i libri iniziati per avere il piacere di commentarli.
Mi sembra che ‘Le due città’ abbia, del Dickens grande scrittore, solo i difetti.
Perciò non trovo esagerato il sintetico commento di James Fitzjames Stephen (1829-1894), che definì il romanzo, appena pubblicato a puntate sulla rivista ‘All the Year Round’ (1859), “una pappa per gatti molto mal condita”, e anche “costruzione mal congegnata per esporre paccottiglia di cattivo gusto” (vedi Wikipédia alla voce: Dickens, Le conte de deux cités).
La storia tenebrosa raccontata dal romanzo si svolge nell’arco di una trentina d’anni, quasi a cavallo della Rivoluzione francese, e si conclude  all’apice del Terrore, nel 1793. La fonte di Dickens pare sia stata unicamente l’opera sulla Rivoluzione scritta da Thomas Carlyle nel 1837, opera che Dickens dice di aver letto infinite volte e che, nella sua prefazione, definisce magnifica e insuperabile.
Arrancando nella lettura de ‘Le due città’, ho avuto l’impressione che lo stile di Dickens, già, in generale, prolisso e immaginoso fino al limite della fumisteria, fosse diventato, in questo romanzo, insopportabilmente ‘carlyliano’.
Ma com’era lo stile di Carlyle?
Hippolyte Taine pubblicò nel 1864, quando Carlyle era ancora attivo e al culmine della sua fama, un saggio su di lui (‘L’idéalisme anglais’) dove dà giudizi e definizioni sorprendentemente acuti e attuali. Carlyle gli sembra un animale straordinario, superstite di una razza perduta, specie di mastodonte smarrito in un mondo che non è fatto per lui. Leggendolo, si rimane sconcertati. Tutto in lui è nuovo: le idee, lo stile, il taglio delle frasi, persino la scelta delle parole. Prende tutto alla rovescia, violenta tutto, espressioni e fatti. I paradossi sono proposti come princìpi, il buon senso prende la forma dell’assurdo: sembra di essere trasportati in un mondo sconosciuto i cui abitanti camminano con la testa in giù e i piedi in aria, vestiti da arlecchino. Si ha voglia di tapparsi le orecchie, si ha mal di testa, si è obbligati a decifrare una lingua del tutto nuova. Carlyle non sa parlare con semplicità. Un fiume di passione torbida arriva impetuoso in questo cervello traboccante, e il torrente di immagini straripa trascinando con sé  rifiuti e splendori. I venti volumi di Carlyle, dice Taine, sono tutti composti di scene fosche e pittoriche, collegate non da argomenti razionali, ma da esclamazioni e apostrofi. In lui anche la storia (per es. la sua Storia della Rivoluzione francese) assomiglia a un delirio. 
    (continua al post successivo)

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