Ancora
Hippolyte Taine, nella sua ‘Histoire de la littérature anglaise’, dà su Dickens
(fra molte lodi) giudizi che sembrano calzanti anche per Carlyle. Per es., che
egli trova dappertutto motivi per esaltarsi; che non abbandona mai il tono
appassionato; che non si riposa mai in uno stile dal tono naturale e in un
racconto dallo sviluppo semplice; che non fa altro che satireggiare o piangere,
per cui non sa scrivere altro che satire o elegie.
Se
è giusto (non è più Taine che parla) ammirare Dickens perché applicava in modo
magistrale il principio del romanzo d’appendice “far ridere, far piangere, far
attendere”, bisogna anche ammettere, però, che nel romanzo ‘Le due città’ il
riso e il pianto mancano e c’è soltanto la noia dell’attesa. Qui non ci sono
quei personaggi dickensiani spinti fino all’assurdo di figure fantastiche il
cui naso, per esempio, è più grande del corpo.
Qui
manca completamente di effetto la tecnica (o l’ispirazione), seguita da Dickens
in altri più riusciti romanzi, di dipingere alcuni personaggi cogliendoli in
una attitudine e riproporli poi sempre fissi nello stesso gesto, come un tic
che riveli in modo comico o drammatico il loro carattere, una loro debolezza o
il loro destino.
Jarvis
Lorry, il buono e bravo funzionario della banca Tellson, si aggiusta
continuamente il parrucchino; il signor Cruncher, portiere e factotum della stessa
banca, ha sempre un fuscello in bocca; sua moglie è sempre in ginocchio a
pregare; Madame Defarge, l’ostessa rivoluzionaria, non fa che lavorare a maglia,
nei momenti più insoliti e nelle posizioni più scomode, già venticinque anni
prima delle tricoteuses. Tutti questi
gesti mi sembrano superficiali e privi di effetto artistico. Ma tutta la Parigi rivoluzionaria mi
sembra poco credibile e poco appassionante, e non perché sia (di necessità) una
descrizione di seconda mano, ma perché tutti i personaggi sembrano figure
teatrali che stanno recitando su un palcoscenico.
Verso
la conclusione del romanzo, viene letto in tribunale il memoriale del dottor
Manette, ritrovato in una cella della Bastiglia, dove il dottore ha passato
diciotto anni per la prepotenza e la vendetta di due fratelli aristocratici. Nel
memoriale si racconta una storia di sopraffazione e di crudeltà, durante la
quale un ragazzo contadino viene ferito a morte da uno dei due fratelli
aristocratici; pochi momenti prima di morire il ragazzo fa un lungo discorso
edificante in difesa dei poveri e contro i nobili, e la scena perde credibilità
e pathos.
Di
pari passo con la debolezza dell’immaginazione, anche lo stile mi sembra cedere
a una esuberanza facile, spontanea e incontrollata.
Per
darne un’idea, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Per es., questo brano:
“Il
villaggio aveva un’unica povera
strada, con la sua povera fabbrica di
birra, e la sua povera conceria, la
sua povera taverna, la sua povera stalla per il cambio dei cavalli
di posta, la sua povera fontana,
tutti i soliti poveri mestieri. Aveva
anche la sua povera gente. Tutti i
suoi abitanti erano molto poveri…”
(p. 120).
Anche
in quest’altro brano di poche righe la parola pietra è ripetuta nove volte:
tanta insistenza per far capire che anche il cuore del proprietario della casa
era di pietra:
“Il
castello del signor marchese era una pesante massa di edifici, con un lungo
cortile di pietra dinanzi, e una
scalinata di pietra a due rampe che
s’incontravano in una terrazza di pietra
dinanzi alla porta principale. Una mole di pietra
da capo a fondo, con pesanti balaustre di pietra,
e urne di pietra, e fiori di pietra, e visi d’uomini di pietra e musi di leone di pietra, in tutte le direzioni…” (p.
125).
Questa
serie di ripetizioni non entra nella mia testa di pietra, mi sembra noiosa e,
in fondo, controproducente, nel senso che distrugge ogni suggestione.
E
di brani così, ce ne sono molti.
(continua al post successivo)
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