Ho voluto rileggere
qualche pagina de Il Buon senso,
libro che Holbach (1723-1789) scrisse contro ‘i tiranni e i preti’, contro
l’assolutismo e la religione. L’avevo letto forse vent’anni fa, con piena
adesione ed entusiasmo. Ora, invece, mi è sembrato arido e addirittura sfocato.
E anche la lunga e dottissima introduzione di Sebastiano Timpanaro, lungi dal
convincermi, mi sembra, adesso, anacronistica.
Forse perché non viviamo più
sotto il tallone dei preti, le critiche di Holbach e di Timpanaro sembrano solo
moderatamente interessanti e, oggi, fuori bersaglio. Holbach, animato da un
fortissimo sentimento agonistico, in una lotta contro l’oscurantismo che doveva
sembrargli eterna, coltiva delle speranze ingenue: “L’ignoranza e la schiavitù sono fatte per rendere gli uomini malvagi e
infelici. Solo la scienza, la ragione, la libertà possono correggerli e
renderli più felici; ma tutto cospira ad accecarli e a mantenerli fuori strada.
I preti li ingannano, i tiranni li corrompono per renderli più schiavi”.
Nel mondo di oggi la scienza, la
ragione e la libertà sembrano trionfare, ma gli uomini sono ugualmente infelici
e hanno un avvenire molto incerto. Una misteriosa e vasta congrega
internazionale di banchieri, burocrati, imprenditori e politici governa il mondo con la stessa crudeltà che
Holbach attribuisce al Dio cristiano, e lo fa nel nome della scienza, della
ragione e della libertà.
Holbach scrive: “La
verità è semplice; l’errore è complicato… La voce della natura è intelligibile,
quella della menzogna è ambigua, enigmatica, misteriosa”. Oggi, però, è proprio il contrario: la verità
è complicata e misteriosa; la menzogna, semplice e seducente.
“Gli uomini sono
infelici solo perché sono ignoranti, scrive ancora Holbach, […] sono cattivi solo perché la loro ragione
non è ancora sviluppata a sufficienza”.
Dopo aver dichiarato che ‘la voce della natura è intelligibile’, qui
sembra proprio che Holbach non intenda i condizionamenti e il peso della natura.
Timpanaro, che segue passo passo il suo autore, ritiene
che credere che le diseguaglianze naturali fra gli uomini non siano eliminabili
mediante l’educazione sia volgare biologismo. Su questo argomento mi azzardo a
dire che l’esperienza smentisce questa pedagogia democraticista. L’educazione
serve, e come! ma, come ho detto nel post precedente, essa sviluppa nell’uomo
le qualità del ‘seme’ naturale. Senz’altro contribuirà ad eliminare o attenuare
le diseguaglianze sociali (ma oggi molto meno di un tempo), ma sulle virtù morali e sull’indole c’è un
sigillo della natura così forte e prepotente che, se un individuo nasce stolto
e meschino, l’educazione lo renderà ancora più meschino e più stolto.
Molière
in un dialogo memorabile de ‘Les Femmes savantes’ introduce queste battute, più
acute ed eloquenti di una lunga ricerca psicologica e filosofica:
TRISSOTIN:
J'ai cru jusques ici que c'était l'ignorance / Qui
faisait les grands sots, et non pas la science.
CLITANDRE:
Vous avez cru fort mal, et je vous suis garant /
Qu'un sot savant est sot plus qu'un sot ignorant.
J'ai cru jusques ici que c'était l'ignorance / Qui
faisait les grands sots, et non pas la science.
CLITANDRE:
Vous avez cru fort mal, et je vous suis garant /
Qu'un sot savant est sot plus qu'un sot ignorant.
La forza della natura sulle disuguaglianze fra gli
uomini in fatto di attitudini, talenti, indole morale, ecc. mi sembra indiscutibile e
granitica. Qualcuno vorrà forse obiettare, per ridurre, sul piano della teoria,
il peso della natura sul destino degli uomini, che, se finora l’educazione non
ha compiuto miracoli, è solo perché è stata una educazione borghese o stalinista, ma che non è escluso, anzi è certo, che
in futuro si arriverà a una forma di educazione globale capace di rimuovere tutte le
diseguaglianze naturali. Obiezioni e speranze, queste, che mi paiono prive di peso. Gli scritti di Timpanaro,
per es., come ho osservato nei miei post del 4 e 5 luglio 2011, sono pieni di
speranze che hanno perduto ogni credibilità.
In questa introduzione Timpanaro critica benevolmente
una insufficienza del pensiero di Holbach, dovuta -dice il grande studioso- più a immaturità dei tempi
che a un limite soggettivo. “Egli non
scorge il carattere ‘aggressivo’ ed esclusivo che la proprietà privata ha
sempre avuto, e che è destinato ad accrescersi con lo sviluppo della grande industria;
non scorge…che la proprietà ha per condizione necessaria l’espropriazione”, cioè, praticamente, che la proprietà è un furto. Tutto vero. Ma forse Timpanaro non aveva capito (il libro è del 1985) che, se non si vuole che gli uomini siano oppressi e schiacciati da onnipotenti multinazionali private o da immense
burocrazie statali, l'unica soluzione è che le comunità possano godere dei beni diventati pubblici con uno spirito
evangelico e uno stile di vita, direi, semplice e pastorale, che è proprio quello che Holbach detesta di più.
Tra i tantissimi spunti che il libro offre, e che io
non posso raccogliere, ce n’è uno che mi interessa particolarmente.
“La
concezione che prevale nel Voltaire maturo, scrive Timpanaro, è quella di un Dio creatore dell’universo […]
non tenuto ad alcun obbligo verso le
creature, non garante della loro felicità e quindi nemmeno dell’immortalità
delle anime umane”.
Perbacco, mi sono detto, Voltaire la pensava come me!
(Vedi post precedente). Timpanaro trova che questa concezione del filosofo
francese sia solo una religione “per le classi alte e per gli spiriti forti”.
Infatti, accanto alla sua concezione elevata, “Voltaire
sosteneva la necessità di una religione falsa ma indispensabile per tenere a
freno le classi basse della società, per farle essere oneste e sottomesse”.
Secondo Timpanaro, la concezione elevata di Voltaire
sarebbe “una religione che, per non
contaminare Dio con alcun elemento antropomorfico, poneva tra la grandezza di
Dio e la piccolezza dell’uomo una distanza abissale, e proprio in nome di tale
distanza esonerava Dio da ogni cura di quei ‘moscerini’ che sono gli
uomini”.
Ma, osservando la vita e la conformazione delle piante, degli animali e degli uomini, a
me sembra giustificato immaginare che Dio, il quale, con tutta evidenza, non si occupa di noi singoli ‘moscerini’ (ma perché
pensare solo a noi? Dio non si occupa nemmeno dei singoli agnelli e maiali sacrificati al nostro appetito; o
degli alberi di un bosco che va a fuoco), si occupi invece delle specie degli organismi viventi. Questa
concezione non riconosce un Dio amorevole verso le singole creature, ma ridurrebbe in modo notevole la
distanza abissale che Timpanaro rimprovera a Voltaire di aver posta fra la grandezza
di Dio e la piccolezza dell’uomo (e aggiungo: delle piante e degli animali). Le speranze circa il nostro destino
personale non aumenterebbero né migliorerebbero rispetto all'incredulità di un ateo, ma sparirebbe anche il timore di un Dio che Holbach accusa di essere, se esistesse, implacabile e vendicativo. E infine (cosa che mi sembra la più importante), sentire che noi tutti siamo frammenti, trascurati ma pur sempre partecipi, di un ispirato disegno divino, i cui esiti sono, sì, disastrosi per le nostre singole esistenze, ma non spengono mai, tuttavia, i sentimenti fondamentali dell'amore e della libertà, potrebbe dare alle
nostre azioni quell'essenziale rispetto del sacro che manca alla vita degli uomini nella società di oggi.
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