lunedì 15 ottobre 2012

Vangelo secondo Matteo. – Sebastiano Timpanaro, Introduzione a: Paul Thiry d’Holbach, Il buon senso, Garzanti, 1985. – Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, 1984. - 2^ parte.







Ho dovuto sopportare per decenni l’aridità morale e le difficoltà sociali a cui ci ha portati la dominante cultura laica, superficiale e irresponsabile, indifferente alle conseguenze delle sue meschine azioni democratiche. (Ne cito solo tre, che mi sembrano molto rappresentative: l’abolizione dello studio del latino, l’istituzione delle regioni, che fu presentata 40 anni fa come una rivoluzione politico-amministrativa e si è rivelata invece una catastrofe economica e politico-morale, e la legge dell’equo canone, che ha devastato il mercato della casa e la vita di milioni di famiglie per una quindicina d’anni, a cavallo degli anni Ottanta). Dopo aver visto tante esperienze fallimentari, mi sono convinto alla fine che, per arrivare a una società moderna a misura dell’uomo, questa cultura, che si è degradata fino a diventare l'anima del consumismo, va assolutamente superata e sostituita con altre idee e altri sentimenti. Impresa titanica! Alfonso Berardinelli, commentando  la Lettera a un religioso di S. Weil in un fascicolo della rivista ‘Filosofia e teologia’ (n. 3, 1994), riassumeva così il suo pensiero:
“L’Europa dei partiti politici, dell’oppressione operaia, dell’alienazione scolastica, non può avere salvezza nel recupero di valori liberal-democratici. L’ateismo umanistico europeo ha abolito il senso del limite, dell’ordine cosmico, dell’ordine necessario della realtà naturale. Ha prodotto l’idea e l’idolatria della produzione illimitata e del progresso illimitato, l’idolatria del futuro […] La sola via d’uscita sarebbe per la Weil l’incarnazione del Cristianesimo nella nostra vita sociale profana. Si tratterebbe di diffondere socialmente quell’esperienza del sacro che libera la persona dall’idolatria della propria maschera. Si tratterebbe cioè di rovesciare venti secoli di storia occidentale”.
Simone Weil pensa che tutte le religioni siano ‘in essenza’ cristianesimo, e che il cristianesimo sia, in fin dei conti, sinonimo di spiritualità. La Weil è convinta che nel mondo moderno niente di vero, reale e giusto sarà più possibile, senza esperienza individuale e quotidiana del sacro: cioè di ciò che non cede alla forza, non è accessibile al suo contagio, non si mescola col male e resiste a qualsiasi pena (Berardinelli). Questa esigenza di spiritualità nasceva in lei dalla convinzione che fosse impossibile resistere anzitutto mentalmente, e poi praticamente, politicamente, alla pressione della forza e dell’inerzia che regolano la macchina sociale, senza aprire nella mente umana moderna di nuovo lo spazio dell’esperienza trascendentale (Berardinelli).
Questo sentimento del sacro mi piace e mi convince. Penso, anzi, che anche quando mi dichiaravo ateo, la mia fiducia nei valori invisibili ma veri, reali e obiettivi, quali la verità, la compassione, il coraggio, ecc., si nutrisse del sentimento del sacro, che consiste, mi pare, nel sentire che esiste una realtà superiore a quella dei singoli individui e della società umana. Per cercare di trovare una coerenza fra idee e sentimenti, mi sono messo a fare il filosofo. Sollecitato dalle osservazioni generiche sulla società, di cui ho parlato sopra, e da esperienze più personali e intime, quali la bellezza della natura e la mitezza degli animali, sono arrivato ad elaborare una filosofia che si può condensare in tre concetti: esiste un Dio creatore, intelligente e provvidenziale; però egli si interessa solo delle specie e non dei singoli individui. L’anima non è immortale. Infatti, perché mai l’anima dovrebbe essere eterna? Niente mi porta a pensarlo. Il sentimento del sacro, questo bene prezioso che eleva l’uomo al di sopra della pura animalità, è fondato sull’esperienza dell’armonia fondamentale che domina, al di là di incrinature e contraddizioni particolari, nella natura e nell’universo. Vorrei, però, precisare, senza sarcasmo, che la condizione animale, la quale presuppone, tra l’altro, l’amore per i figli, non è affatto la peggiore condizione in cui l’uomo possa trovarsi. Gli esseri umani possono scendere ben al di sotto di essa. Non solo le tragiche vicende della storia recente ci ammoniscono su questa irresistibile tendenza dell’uomo a scendere sotto il livello delle bestie, ma già Tacito, nella sua Vita di Agricola, aveva scritto: “E’ proprio della natura umana odiare colui che hai offeso” (Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris).
Sono stato sorpreso, e forse compiaciuto, leggendo I quattro Vangeli nell’edizione B.U.R. (2008), corredati da un bellissimo e prezioso commento storico-letterario di Benedetto Prete, di scoprire che i Sadducei avevano, su Dio e l’anima, più o meno le mie stesse idee. “La setta dei Sadducei riteneva che il Signore non si occupasse delle cose create; di conseguenza essi negavano la provvidenza divina, l’immortalità dell’anima e la risurrezione del corpo” (pag. 211). Sarei dunque un Sadduceo in ritardo di duemila anni? Non lo so davvero; e qualsiasi cosa ciò voglia dire, io posso solo affermare che per ora questi sono i miei pensieri.

(continua al post successivo)



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