Più o meno a vent’anni ho cominciato a sentirmi e
definirmi ateo, e ho passato in questa condizione tutta la vita. Mi sono
sposato in Comune e non ho fatto battezzare le mie figlie. A quel tempo (anni
Sessanta e Settanta), nel mio ambiente di piccola borghesia di sinistra, si era
molto orgogliosi e soddisfatti di sé per questi elementari atti di coerenza.
Anche da ragazzo avevo il gusto della letteratura, mi piaceva osservare i sentimenti degli uomini, ero sensibile alle belle
immagini e non ero indifferente al valore delle idee. Non leggevo per
passatempo o per puro divertimento; direi, piuttosto, che il mio divertimento
consisteva nel leggere i grandi romanzi confrontandomi appassionatamente con i
loro personaggi. Grazie a questo atteggiamento verso i libri (e anche verso le
persone), la professione di ateismo non aveva neppure scalfito la mia intima,
quasi fisica, fiducia che la ‘nobiltà d’animo’, fatta di generosità, lealtà,
coraggio, fosse un valore, anche se invisibile, vivo, reale e oggettivo. Di
nobiltà d’animo, ce n’era, anche allora, cinquant’anni fa, davvero poca in
giro, e men che meno nel mio ambiente di impiegati, ma io sentivo che essa era operante
nei libri (oggetti vivi e parlanti) e la vedevo, inoltre, nella resistenza al
fascismo, poi nella guerra dei vietnamiti e in ogni ribellione contro dei
potenti oppressori.
La storia, purtroppo, come fonte di insegnamenti
morali, delude sempre, perché i ribelli di ieri, una volta che hanno vinto,
in nome delle stesse idee che li avevano portati alla vittoria, diventano gli oppressori implacabili di oggi.
La letteratura, poi, è, sì, una immensa e inesauribile
fonte di vita morale, ma solo per pochi. Non solo perché essa richiede operazioni
lunghe e abbastanza faticose e difficili (la lettura, la comprensione, la
memoria), ma soprattutto perché la stragrande maggioranza dei lettori legge con
animo fiacco e per scopi più o meno futili e ‘mondani’. Con sincero dispiacere,
dico che ho incontrato molte persone che leggevano più di me, ma poche che
leggessero, come me, con partecipazione emotiva e sentimento critico, avendo in
mente un'idea elevata di arte e di verità.
Già molti anni fa mi sono reso conto che lo studio e
l’istruzione, di per sé, non giovano a nulla e che, lungi dal migliorare con
automatica sicurezza le persone, sviluppano soltanto le buone o cattive qualità
che esse già possiedono (avendole ricevute dalla Natura), e cioè, nella pratica,
quasi sempre i difetti latenti, i quali,
sviluppati proprio grazie all’istruzione, diventano insopportabili e pericolosi, perché deprimono
il livello di competenza, di rendimento, di solidarietà, di civiltà di tutti
gli ambienti di lavoro e della società intera. (Tralascio il fatto, per niente
secondario, che nel nostro paese la scuola e l’università sono diventate una
palude infetta da attraversare cercando di riceverne il minor danno possibile).
La domanda che mi faccio ora, dopo vari decenni,
durante i quali, pur dichiarandomi ateo, mi sembra di aver capito, lentamente ma sempre meglio,
la catastrofe a cui ci ha portati lo spirito laico, rivoluzionario,
democratico, progressista e futurista, è questa: da dove sarebbe possibile
ripartire?
Nel 1934 Simone Weil descriveva il modello di società che
tutto il pensiero moderno, a partire dal Rinascimento, prefigurava e faceva
desiderare. “Riassumendo, la società meno
cattiva è quella in cui la maggior parte degli uomini si trova per lo più a
pensare mentre agisce, ha le maggiori possibilità di controllo sull’insieme
della vita collettiva e possiede la maggiore indipendenza”.
E Simone Weil aggiungeva, qualche pagina dopo: “Si tratta sicuramente di una pura utopia.
Ma il descrivere anche sommariamente uno stato di cose che sarebbe migliore di
quello esistente significa sempre costruire un’utopia; tuttavia nulla è più
necessario alla vita di simili descrizioni, purché siano sempre dettate dalla
ragione”.
Quindici anni prima delle 'meditazioni della vita
offesa' di Theodor Adorno e trenta prima dell’Uomo a una dimensione di Herbert
Marcuse, Simone Weil, geniale ragazza appena venticinquenne, emette una
sentenza penetrante, esatta e profetica sul mondo moderno, che non solo ha tradito tutte le aspettative, ma ha in sé una terribilità che non si è ancora interamente svolta e rivelata.
“E’
impossibile concepire qualcosa di più contrario a questo ideale [di società
utopistica] della forma che ai giorni nostri ha assunto la civiltà moderna, al
termine di una evoluzione durata parecchi secoli. Mai l’individuo è stato così
completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati
più incapaci di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di
pensare. I termini di oppressori e di oppressi, la nozione di classe, tutto ciò
sta perdendo ogni significato, tanto sono evidenti l’impotenza e l’angoscia di
tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale, diventata una macchina per
infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare
incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine… Viviamo
in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo”.
“Da dove verrà la rinascita?, si chiedeva
Simone Weil in un altro testo. “Solo dal
passato, se sapremo amarlo”.
Ma chi ha voglia oggi di conoscere il passato? La Giunta comunale di Bologna, per esempio, quest'anno ha cambiato nome a una scuola secondaria. Ha cancellato il vecchio nome, Dante Alighieri, e gli ha sostituito Fabrizio De André. Paolo Di Stefano ha commentato così sul Corriere della Sera: "Bisognerebbe poter entrare nelle teste dei prof che hanno preso questa iniziativa per capire cosa li ha spinti a rinunciare a Dante Alighieri. Troppo abusato? Poco trendy? Poco pop? Poco intonato? Poco immediato?".
Ma chi ha voglia oggi di conoscere il passato? La Giunta comunale di Bologna, per esempio, quest'anno ha cambiato nome a una scuola secondaria. Ha cancellato il vecchio nome, Dante Alighieri, e gli ha sostituito Fabrizio De André. Paolo Di Stefano ha commentato così sul Corriere della Sera: "Bisognerebbe poter entrare nelle teste dei prof che hanno preso questa iniziativa per capire cosa li ha spinti a rinunciare a Dante Alighieri. Troppo abusato? Poco trendy? Poco pop? Poco intonato? Poco immediato?".
(continua al
post successivo)
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