sabato 29 settembre 2012

Guy de Maupassant, Il nostro cuore. B.U.R., 1963. - Elena Croce, Lo snobismo liberale. Adelphi, 2004. - 'La femme comme il faut' (Balzac). - 1^ parte.





“Il nostro cuore” fu pubblicato nel 1890, anno che praticamente concluse l’attività letteraria di Maupassant. Nell’arco di un decennio intensissimo egli aveva scritto altri cinque romanzi e trecento novelle. Benché già da qualche anno soffrisse di allucinazioni, di disturbi mentali e altre malattie che lo porteranno alla follia e, nel luglio del 1893, alla morte a soli 43 anni, questo ultimo romanzo ha una chiaroveggenza, una freschezza, un equilibrio e una profonda ma controllata sensibilità che stupiscono. Pur avendo la misura di un classico, “Il nostro cuore” è il meno noto e, credo, il meno apprezzato fra i romanzi di Maupassant.
Carlo Pellegrini, francesista d’altri tempi, autore fra l’altro di una bella ‘Storia della letteratura francese’, considerava ‘Pierre et Jean’ come il miglior romanzo di Maupassant, perché “non dà l’impressione, come i primi, di risultare dall’accostamento di una serie di racconti; né è, come gli ultimi – Fort comme la mort e Notre Coeur –, troppo mondano e d’una psicologia troppo raffinata, lungi da quella sanità fondamentale e naturale che è nel miglior Maupassant, e che ci richiama quasi sempre alla natura normanna”.
Il racconto e la descrizione dei turbamenti, della gelosia e dei pensieri angosciosi che l’amore deluso per la bella e fredda Michèle de Burne ispira ad André Mariolle hanno, certo, il ritmo incalzante di una ossessiva analisi psicologica, ma questa compressione ossessiva è contenuta in un arco di 190 pagine, mentre, per esempio, il capitolo altrettanto (e forse più) ossessivamente analitico ‘Un amore di Swann’, nel primo volume del grande romanzo di Marcel Proust, è più lungo di circa 40 pagine. Voglio dire che l’ ‘ossessione’  è una molla che, se compressa in uno spazio congruo, dove possa distendersi nella sua misura naturale, può anche essere l’elemento fondamentale di un racconto di valore artistico indiscutibile.
Ma poi la definizione di Carlo Pellegrini (morto nel 1985 alla venerabile età di 96 anni) coglie solo la superficie di Notre Coeur, per il quale la definizione di romanzo psicologico ha solo una esattezza generica. In realtà non si tratta di un racconto che abbia il suo maggior pregio nel virtuosismo dell’analisi psicologica. Per quello che posso ricordare, romanzi dove la psicologia è troppo raffinata, nel significato limitativo inteso da Pellegrini, sono, per esempio, L’Illusione (1891) di Federico De Roberto; oppure i romanzi giovanili (1865-1875) di Giovanni Verga. Questi ultimi, pur rappresentando, più o meno, i problemi di relazione di una società simile a quella di Maupassant, raccontano con uno stile melodrammatico storie improbabili che stanno alla vicenda lineare e alla prosa asciutta e precisa di Notre Coeur come le avventure  di Emilio Salgari stanno all’Odissea.

Tenendo ancora presente la sintetica critica di Carlo Pellegrini, osservo soltanto di sfuggita che il paesaggio e la natura, di cui Maupassant parla sempre con commozione, hanno un ruolo importante in questo breve romanzo proprio come via di scampo alla aridità della vita mondana. Però, dalla descrizione che egli fa di alcune contadine occupate in faccende domestiche (per esempio: “una vecchia curva…con un corpetto lacero, le gambe stecchite e nodose…guardava fissa, con sguardo vuoto, con occhi che non avevano visto mai altro se non i rudimentali arnesi necessari alla sua misera esistenza”), si capisce che egli non ha più alcuna illusione sulla ‘sanità’ della vita di campagna. Criticare Notre Coeur, perché qui lo scrittore è lontano “da quella sanità fondamentale e naturale che è nel miglior Maupassant”, mi sembra che sia frutto di uno stereotipo.
In Notre Coeur c’è la consapevolezza che la società è cambiata, che l’indole e la mentalità delle donne sono cambiate e che anche l’amore è cambiato. Il romanziere Gaston de Lamarthe, acuto e lungimirante, ammonisce e istruisce in molte occasioni l’innamoratissimo André Mariolle, mentre passeggiano di notte per le vie di Parigi. “Io dico che nella nostra nuova società capitalista, con donne che non hanno desiderio e bisogno di nulla, tranne quello di essere, senza correre alcun pericolo, un po’ rallegrate, in una società in cui gli uomini hanno dosato il piacere come il lavoro, dico che l’antica deliziosa e potente attrazione naturale dei sessi è scomparsa”.  E poco prima aveva affermato: “Per commuoverle, è inutile possedere un’anima, un cuore, l’intelligenza, qualità e meriti eccezionali, come una volta, quando si innamoravano di un uomo per il suo valore e il suo coraggio. Quelle dei nostri giorni sono delle commedianti…ripetono meccanicamente una commedia che recitano per tradizione e alla quale non credono più. Per esse occorrono dei guitti… i pagliacci della società. […] Le uniche ancora capaci di un affetto sono le commesse dei magazzini o le piccole borghesi sentimentali, povere e malmaritate”.
Questa non è ‘letteratura’, non è divagazione letteraria o fantasia capricciosa, ma analisi di costume rigorosa e precisa. Quando André Mariolle, già dubbioso sulla tenuta dell’amore di Michèle de Burne, l’osserva avvolta in un meraviglioso vestito che la fa sembrare un ‘vivente fascio di fiori’, ha dei pensieri di sorprendente acutezza. “Pensava che serrarla in quel momento tra le braccia sarebbe stato uno scempio barbaro, come calpestare un’aiola fiorita. Il corpo delle donne in tal caso non è che un pretesto per l’abbigliamento, un oggetto da adornare, non più una fonte di amore”.


(continua al post successivo)

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