Affaticato e irritato dalla prosa caotica di Thomas
Carlyle (di cui stavo leggendo, con tante speranze, la Rivoluzione francese),
ho interrotto la lettura per cercare fra i miei libri un romanzo dilettoso, e
ho trovato il Giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani, che ho letto ora
per la prima volta. Il mezzo secolo passato dalla sua pubblicazione (io avevo
già vent’anni) mi ha predisposto a leggere il romanzo con simpatia, curiosità e
una generica nostalgia non tanto di me stesso ventenne, quanto dell’atmosfera e
delle suggestioni del mondo d’ante-guerra descritto nel libro.
Il romanzo soddisfa quasi pienamente questo desiderio di riscoprire
suggestioni antiche, emozioni adolescenziali, umorismo e cattiverie
studentesche, slanci idealistici della giovinezza.
La descrizione del professor Meldolesi e della
professoressa Fabiani, insegnanti di lettere e di matematica al liceo-ginnasio
G. B. Guarini, è fatta con un sarcasmo leggero e un vago divertimento non privo,
mi pare, di tenerezza.
La
Fabiani, “di origine
bolognese, vedova senza figli, oltre i cinquanta, molto di chiesa, durante le
interrogazioni la vedevamo astrarsi, bisbigliando tra sé, e strabuzzando di
continuo gli occhi cerulei, fiamminghi, come sul punto di essere rapita in
estasi”.
Il Meldolesi era “nato a Comacchio da famiglia contadina;
educato in Seminario fino a tutto il liceo (e del prete, del piccolo, arguto,
quasi femminile prete di campagna aveva moltissimo); passato poi a studiare
lettere a Bologna, in tempo per assistere alle ultime lezioni di Giosue
Carducci, di cui si vantava <umile scolaro>”.
I due insegnanti si recavano regolarmente nella grande e
bella casa dei Finzi-Contini per dare
lezioni private ai due ragazzi, Alberto e Micòl. Questi non frequentavano la scuola
pubblica, perché la loro mamma, igienista fanatica, aveva paura dei microbi. Ma
il padre del narratore accusava i Finzi-Contini di essere disfattisti, perché “mandare i propri figlioli alle scuole
pubbliche era considerato, in genere, patriottico. Non mandarceli, disfattistico”.
I due insegnanti si sentivano onorati di poter
frequentare la casa di una così importante famiglia e vi si recavano, ciascuno
a modo suo, con una sorta di spirito missionario.
Sono molti i gesti, le emozioni e gli scherzi infantili e
adolescenziali che Bassani sa rievocare, e questa capacità dà una affascinante
freschezza alle sue pagine.
Ne è un esempio il ricordo di come gli alunni del
ginnasio si arrampicassero sul predellino per sbirciare dentro la magnifica
carrozza con cui i ragazzi Finzi-Contini arrivavano a scuola, per dare gli
esami da privatisti. “Poteva essere anche questo un piacere, anzi lo era
senz’altro: uno dei tanti avventurosi piaceri di cui erano prodighe, allora,
per noi, quelle meravigliose, adolescenti mattine di tarda primavera”.
Quando il narratore viene bocciato in matematica, non sa
capacitarsi di questa oscura e inaspettata tragedia. “Io, proprio io, che mai avevo subito
l’umiliazione del rinvio a ottobre […] io bocciato, ridotto alla mediocrità,
confuso nella massa!”. Quale promettente scolaro, per il quale i genitori hanno con cieca fiducia pronosticato un futuro da Presidente, non ha provato qualche volta la sorpresa
e lo sgomento di sentirsi uno qualunque?
E quanta verità e, credo, commozione, c’è in questo
ricordo infilato, apparentemente quasi per caso, fra due parentesi: “ ‘Un ragazzo
della tua età’: era una delle espressioni favorite di mio padre”.
Un’altra poetica, divertente e vera caratteristica di
questo mondo adolescente, diverso o estraneo al mondo degli adulti, è il gergo
che parlano Alberto e Micòl: “una particolare, inimitabile, tutta privata
deformazione dell’italiano”, che essi consideravano la loro vera lingua e
chiamavano il finzi-continico.
Non solo le rievocazioni, ma anche i ritratti di Bassani
sono veri ed espressivi. Faccio un solo esempio. Il narratore ricorda quando,
da bambino, la mamma lo portava sul Montagnone e lui, eludendo la vigilanza
materna, andava a sporgersi dal parapetto guardando in giù, nel baratro
profondo trenta metri. “Quasi sempre, lungo la parete strapiombante, stava
salendo o scendendo qualcuno: giovani muratori, contadini, manovali, ognuno con
la bicicletta a tracolla, e vecchi, anche, baffuti pescatori di rane e
pesci-gatto, carichi di canne e di ceste […] venivano su con certi occhi
sbarrati che a me sembravano fissi nei miei, affioranti timidamente dall’orlo
del parapetto, ma invece mi sbagliavo, si capisce, erano attenti unicamente a
scegliere l’appiglio migliore. Ad ogni modo, mentre stavano così, sospesi
sull’abisso – a coppie, per solito: uno dietro l’altro -, li udivo
chiacchierare tranquilli, in dialetto, né più né meno che se si trovassero a
camminare lungo un viottolo in mezzo ai campi. Come erano calmi, forti, e
coraggiosi! – mi dicevo”.
L’unico personaggio che mi sembra, invece, convenzionale e privo
di profondità è Giampiero Malnate, il giovane chimico venuto da Milano, amico di Alberto Finzi-Contini, di fede comunista, che nel
1941 parte per la Russia
con il Corpo di spedizione italiano e non fa più ritorno.
Io non mi soffermo sull’amore del narratore per Micòl. E’
un amore, questo, pieno di suggestioni e di aspirazioni, che chi ha vissuto con idealismo e immaginazione la propria giovinezza può capire e amare. E' più interessante
analizzare il rapporto e il confronto fra Micòl e il comunista Malnate. Questi
è costruito come un comunista convenzionale che verso i suoi amici più giovani ha sempre l'atteggiamento del catechizzatore e l'intenzione di accendere in loro una scintilla
d’entusiasmo per ‘il sol dell’avvenire’. Malnate, però, non è un personaggio
ben costruito che recita una parte convenzionale; ma è proprio un personaggio
costruito, in se stesso, in modo schematico e semplicistico. Mi sembra perciò che la sua
predicazione politica, anche se non mancano riferimenti alla guerra civile
spagnola e ad altri importanti avvenimenti contemporanei, non abbia drammaticità. Eppure tale predicazione avrebbe potuto avere un'eco (artistica) ben più forte, proprio perché fatta fra persone che chiudevano gli occhi di fronte alla realtà e alla imminente catastrofe che si preparava in Europa. Ne sono emblematici il silenzio e l'apparente indifferenza
con cui i genitori Finzi-Contini assistono allo sviluppo della malattia del figlio Alberto. I ritratti riusciti ed efficaci di Bassani sono quelli evocativi, di persone
conosciute, frequentate e amate all'interno di un mondo ben circoscritto. Un personaggio come Malnate
sembra introdotto dall'esterno; la sua presenza è soprattutto funzionale: serve a creare una artificiosa alternativa politica e culturale ai protagonisti del romanzo.
Il narratore sospetta che fra lui e Micòl ci sia stato un
sentimento erotico, ma, alla fine, non ne è affatto sicuro. Tuttavia, quando il narratore, a metà del libro, descrive le impressioni di Micòl su Malnate, dalle obiettive parole riportate non si sfugge all'impressione che
la ragazza provi davvero una attrazione fisica verso il chimico; attrazione che risulta
ambigua solo perché lei, sul piano politico e intellettuale, è lontanissima da
lui e gli oppone resistenza.
Secondo Micòl, “ <il> Malnate non era granché
nemmeno come fisico. Troppo grande, troppo grosso, troppo ‘padre’, perché da
questo lato potesse esser preso in seria considerazione. Era uno di quei tipi
eccessivamente pelosi che per quante volte in una giornata si facciano la
barba, hanno sempre l’aria un po’ sporca, poco lavata… Forse, ecco, per quel
che se ne poteva intravedere attraverso gli occhialacci spessi un dito dietro i
quali si mimetizzava (pareva che lo facessero sudare: e veniva voglia di
levarglieli), forse aveva occhi non male: occhi grigi, ‘d’acciaio’, da uomo
forte. Comunque, troppo seri e severi, quegli occhi”.
E’ strano: Malnate sembra più vivo qui, descritto
indirettamente dal narratore con occhi di voyeur, che non quando parla
lui stesso direttamente.
Mi pare che Bassani non sia bravo, in generale, a
costruire i dialoghi, che sono per lo più rari, brevi e, molte volte, forzati e
noiosi. E' certamente per questo motivo che ricorre spesso a lunghi discorsi
indiretti, che sono un espediente pesante e poco originale, perché ricalcano,
come ritmo e stile, il modo di narrare di altri scrittori (a cominciare, forse,
da Manzoni).
La figura di Micòl rimane vive nella fantasia dei lettori
per il suo amore per la natura (“i grandi, i quieti, i forti, i pensierosi
alberi”) e per il profondo sentimento di indipendenza personale che opponeva agli sforzi di catechizzazione di
Malnate, quando affermava “che a lei, del suo futuro democratico e sociale, non
gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso
preferendo di gran lunga ‘le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui’, e il
passato, ancora di più, il caro, il dolce, il ‘pio’ passato”.
Il mio giudizio, in conclusione, è che Il Giardino dei
Finzi-Contini è un sincero e modesto bel-romanzo.
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