E’
stato un lungo percorso arrivare (o, come qualcuno potrebbe pensare, regredire)
fino a Joseph de Maistre. La sua fama di reazionario, decretata da storici
illustri, non aveva mai suscitato in me alcuna curiosità di conoscerlo e me ne
aveva sempre tenuto lontano. Solo negli ultimi dieci anni ho cominciato a
scoprire che anche il mondo dell’alta
cultura, con le sue condanne e assoluzioni, premi e castighi, può essere
fazioso e insensibile quanto quello della politica.
Non
è certo la profondità degli studi che dà oggi una certa spavalderia ai miei
giudizi, ma solo il sentimento e la posizione elevata di chi, per puro caso, è
testimone degli avvenimenti contemporanei.
La
profondità degli studi (bisogna dirlo) a volte fa scrivere opere dove la
cultura, se non è illuminata da uno spirito superiore, diventa eccessiva e
farraginosa: una zavorra che rende i libri illeggibili e inutili. Mi sembra il
caso di questo libro di Adolfo Omodeo sul ‘conte reazionario’. Sulla qualità di
studioso di Omodeo, ricordo una frase del suo amico Luigi Russo che ora mi pare
possa assumere anche un significato ironico: “Omodeo ha una erudizione tanto
superiore alla mia”.
Quanto
al valore della mia testimonianza di contemporaneo, esso non sarebbe granché,
se il tempo di oggi non parlasse da solo, con una forza di persuasione
irresistibile, segnando la conclusione di una lunga parabola: conclusione nella
quale gli ideali rivoluzionari di libertà, di democrazia e di progresso che,
nella fase ascendente, sembravano così radiosi (non a Maistre, che per questo è
stato considerato un reazionario), rivelano urbi et orbi la loro inconsistenza.
Dov’è oggi la libertà? Dov’è la democrazia? Dove sono l’eguaglianza e il
progresso?
Nessuno
ci crede più, ma ognuno spera solo che il temuto naufragio universale risparmi
la sua piccola vita.
La
lezione di Maistre (come quella di
Burke, di Mallet du Pan, Tocqueville, Manzoni, Taine: mi limito ai pochi autori
letti) è importante per comprendere le ragioni del fallimento di quegli ideali,
che non si sono realizzati non perché abbiano trovato grandi e oscuri ostacoli
sul loro cammino o perché siano stati traditi (da chi, poi? Stalin non era
certo un traditore), ma perché, così come erano stati concepiti, erano destinati
a naufragare. Lo sviluppo spontaneo e la diligente applicazione di quelle idee
hanno portato alla situazione attuale.
Maistre,
rivolgendosi ai presuntuosi razionalisti, le cui idee avevano vinto, scrive:
“Voi
temevate la forza della tradizione, il peso dell’autorità, le illusioni
dell’immaginazione: ora, di tutto questo, non rimane più niente. Non c’è più
tradizione. Non ci sono più padroni: lo spirito di ciascun uomo appartiene solo
a lui.
Dopo
che la filosofia ha sgretolato il cemento che univa gli uomini, non esistono
più aggregazioni morali” (pag. 83).
Con
un anticipo di due secoli, il conte afferma una verità che oggi è diventata un
tragico ritornello.
Maistre
è un fervido cattolico. Per lui la religione deve essere una parte importante,
e sempre presente, della società. Mi pare, però, che Omodeo prenda alla lettera, per polemizzare da una
posizione di vantaggio, tutte le sue affermazioni di fede più ortodosse e
clamorose, perdendone, così, la lezione più importante. Ma se io allargo
l’interpretazione del cristianesimo di Maistre (nella cui precisa lettera
non posso credere) fino a comprendervi il ‘sentimento del sacro’ di Simone
Weil, nel quale credo, ecco che Maistre diventa un maestro prezioso.
Omodeo,
in un passo molto interessante del suo libro, sottolinea la caratteristica
fondamentale di Maistre. Però Omodeo dà a questa caratteristica un significato
del tutto negativo.
“Egli
[Maistre] cerca di dare una tensione fuor del comune ai termini, di fare
intuire una forza trascendente che opera in noi e a traverso noi, anche nei
fatti che l’esperienza costante ha appiattito; di far sentire che tutto è
pregnante d’un mistero; di ridestare un sentimento mistico e sacrale nei
rapporti della più comune realtà” (pag. 25).
Omodeo
tocca qui un punto di grande forza delle idee di Maistre, pensando di toccare
il suo punto debole.
Quando
Omodeo scriveva il suo libro, non poteva conoscere l’esperienza contemporanea
di Simone Weil (il più grande filosofo del Novecento, l'ha definita Alfonso
Berardinelli). Però lo Zibaldone di Leopardi era già noto da quarant’anni, e
Omodeo avrebbe potuto riflettere su pensieri come questo: “La natura è grande,
la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira”.
“Il Cristianesimo della Weil – ha scritto
Berardinelli – era soprattutto un rifiuto dell’ateismo laico borghese e delle
filosofie morali, sociali e politiche che da questo sono nate (dal liberalismo
al marxismo). La sua religiosità era un modo per rendere di nuovo reali, cioè
vissute e non puramente intellettualistiche o ideologiche, forme di pensiero e
di comportamento libero dell’individuo, sempre più avvilite, svuotate e
schiacciate nelle società del ventesimo secolo: tanto nei totalitarismi che
nelle democrazie di massa”.
Non
credo che sia una forzatura trovare una vicinanza fra la Weil e Maistre.
“Da
dove verrà la rinascita? – si chiedeva la Weil. “Solo dal passato, se sapremo amarlo”.
Un
altro pensiero caratteristico del conte è questo:
“L’autorità
civile, favorendo con tutte le sue forze il rovesciamento del sistema antico,
dà ai nemici del cristianesimo tutto l’appoggio che essa un tempo concedeva
alla religione nazionale. Lo spirito umano prende tutte le forme immaginabili
per combattere la religione antica. Questi sforzi sono applauditi e pagati, e
gli sforzi contrari sono dei crimini” (pag. 83).
(Non
posso fare a meno di pensare, per es., all’accusa di omofobia in cui oggi
incorre chi mette in dubbio la naturalità del matrimonio fra omosessuali,
sbandierato come conquista di libertà).
Inventandosi
un ‘uomo’ inesistente, i rivoluzionari francesi avevano deciso di distruggere
la religione, sostituendola con la ‘ragione’. Ma la ‘ragione’ non funziona come
coagulante di una società, perché non crea legami sociali e sentimentali né fra
uomini della stessa epoca né con gli uomini delle generazioni precedenti.
Come
si è sviluppato nel tempo questo razionalismo rivoluzionario? La sua ultima
incarnazione l’abbiamo fin troppo sotto gli occhi. E’ l’individualismo
consumistico, che tutti fanno finta di deplorare.
In
una pagina che ho riportata in un post precedente, Tocqueville analizza questo
avvilimento delle masse, esclamando che solo la libertà può strappare i
cittadini al culto del denaro e trarli dall’isolamento in cui vivono.
Ma
questa libertà di cui parla Tocqueville non può essere una libertà puramente
amministrativa. E’ un sentimento animato da qualcosa di profondo e di sacro.
Tocqueville, che io sappia, non usa
queste parole, ma questo sentimento deve necessariamente avere qualcosa di
sacro per poter portare i cittadini, come auspica il pensatore francese, a
sentire ad ogni istante la patria, e per elevarli al di sopra degli interessi
personali e della volgarità quotidiana.
(continua
al post successivo)
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