lunedì 13 agosto 2012

Joseph de Maistre, Considérations sur la France. Nouv. éd. - Lyon-Paris, 1829. - Adolfo Omodeo, Un reazionario: il conte J. de Maistre. Bari, 1939. - Prima parte.



E’ stato un lungo percorso arrivare (o, come qualcuno potrebbe pensare, regredire) fino a Joseph de Maistre. La sua fama di reazionario, decretata da storici illustri, non aveva mai suscitato in me alcuna curiosità di conoscerlo e me ne aveva sempre tenuto lontano. Solo negli ultimi dieci anni ho cominciato a scoprire che anche il mondo  dell’alta cultura, con le sue condanne e assoluzioni, premi e castighi, può essere fazioso e insensibile quanto quello della politica.
Non è certo la profondità degli studi che dà oggi una certa spavalderia ai miei giudizi, ma solo il sentimento e la posizione elevata di chi, per puro caso, è testimone degli avvenimenti contemporanei.
La profondità degli studi (bisogna dirlo) a volte fa scrivere opere dove la cultura, se non è illuminata da uno spirito superiore, diventa eccessiva e farraginosa: una zavorra che rende i libri illeggibili e inutili. Mi sembra il caso di questo libro di Adolfo Omodeo sul ‘conte reazionario’. Sulla qualità di studioso di Omodeo, ricordo una frase del suo amico Luigi Russo che ora mi pare possa assumere anche un significato ironico: “Omodeo ha una erudizione tanto superiore alla mia”.
Quanto al valore della mia testimonianza di contemporaneo, esso non sarebbe granché, se il tempo di oggi non parlasse da solo, con una forza di persuasione irresistibile, segnando la conclusione di una lunga parabola: conclusione nella quale gli ideali rivoluzionari di libertà, di democrazia e di progresso che, nella fase ascendente, sembravano così radiosi (non a Maistre, che per questo è stato considerato un reazionario), rivelano urbi et orbi la loro inconsistenza. Dov’è oggi la libertà? Dov’è la democrazia? Dove sono l’eguaglianza e il progresso?
Nessuno ci crede più, ma ognuno spera solo che il temuto naufragio universale risparmi la sua piccola vita.
La lezione di  Maistre (come quella di Burke, di Mallet du Pan, Tocqueville, Manzoni, Taine: mi limito ai pochi autori letti) è importante per comprendere le ragioni del fallimento di quegli ideali, che non si sono realizzati non perché abbiano trovato grandi e oscuri ostacoli sul loro cammino o perché siano stati traditi (da chi, poi? Stalin non era certo un traditore), ma perché, così come erano stati concepiti, erano destinati a naufragare. Lo sviluppo spontaneo e la diligente applicazione di quelle idee hanno portato alla situazione attuale.
Maistre, rivolgendosi ai presuntuosi razionalisti, le cui idee avevano vinto, scrive:
“Voi temevate la forza della tradizione, il peso dell’autorità, le illusioni dell’immaginazione: ora, di tutto questo, non rimane più niente. Non c’è più tradizione. Non ci sono più padroni: lo spirito di ciascun uomo appartiene solo a lui.
Dopo che la filosofia ha sgretolato il cemento che univa gli uomini, non esistono più aggregazioni morali” (pag. 83).
Con un anticipo di due secoli, il conte afferma una verità che oggi è diventata un tragico ritornello.
Maistre è un fervido cattolico. Per lui la religione deve essere una parte importante, e sempre presente, della società. Mi pare, però, che Omodeo  prenda alla lettera, per polemizzare da una posizione di vantaggio, tutte le sue affermazioni di fede più ortodosse e clamorose, perdendone, così, la lezione più importante. Ma se io allargo l’interpretazione del cristianesimo di Maistre (nella cui precisa lettera non posso credere) fino a comprendervi il ‘sentimento del sacro’ di Simone Weil, nel quale credo, ecco che Maistre diventa un maestro prezioso.
Omodeo, in un passo molto interessante del suo libro, sottolinea la caratteristica fondamentale di Maistre. Però Omodeo dà a questa caratteristica un significato del tutto negativo.
“Egli [Maistre] cerca di dare una tensione fuor del comune ai termini, di fare intuire una forza trascendente che opera in noi e a traverso noi, anche nei fatti che l’esperienza costante ha appiattito; di far sentire che tutto è pregnante d’un mistero; di ridestare un sentimento mistico e sacrale nei rapporti della più comune realtà” (pag. 25).
Omodeo tocca qui un punto di grande forza delle idee di Maistre, pensando di toccare il suo punto debole.
Quando Omodeo scriveva il suo libro, non poteva conoscere l’esperienza contemporanea di Simone Weil (il più grande filosofo del Novecento, l'ha definita Alfonso Berardinelli). Però lo Zibaldone di Leopardi era già noto da quarant’anni, e Omodeo avrebbe potuto riflettere su pensieri come questo: “La natura è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira”.
 “Il Cristianesimo della Weil – ha scritto Berardinelli – era soprattutto un rifiuto dell’ateismo laico borghese e delle filosofie morali, sociali e politiche che da questo sono nate (dal liberalismo al marxismo). La sua religiosità era un modo per rendere di nuovo reali, cioè vissute e non puramente intellettualistiche o ideologiche, forme di pensiero e di comportamento libero dell’individuo, sempre più avvilite, svuotate e schiacciate nelle società del ventesimo secolo: tanto nei totalitarismi che nelle democrazie di massa”.
Non credo che sia una forzatura trovare una vicinanza fra la Weil e Maistre.
“Da dove verrà la rinascita? – si chiedeva la Weil. “Solo dal passato, se sapremo amarlo”.
Un altro pensiero caratteristico del conte è questo:
“L’autorità civile, favorendo con tutte le sue forze il rovesciamento del sistema antico, dà ai nemici del cristianesimo tutto l’appoggio che essa un tempo concedeva alla religione nazionale. Lo spirito umano prende tutte le forme immaginabili per combattere la religione antica. Questi sforzi sono applauditi e pagati, e gli sforzi contrari sono dei crimini” (pag. 83).
(Non posso fare a meno di pensare, per es., all’accusa di omofobia in cui oggi incorre chi mette in dubbio la naturalità del matrimonio fra omosessuali, sbandierato come conquista di libertà).
Inventandosi un ‘uomo’ inesistente, i rivoluzionari francesi avevano deciso di distruggere la religione, sostituendola con la ‘ragione’. Ma la ‘ragione’ non funziona come coagulante di una società, perché non crea legami sociali e sentimentali né fra uomini della stessa epoca né con gli uomini delle generazioni precedenti.   
Come si è sviluppato nel tempo questo razionalismo rivoluzionario? La sua ultima incarnazione l’abbiamo fin troppo sotto gli occhi. E’ l’individualismo consumistico, che tutti fanno finta di deplorare.
In una pagina che ho riportata in un post precedente, Tocqueville analizza questo avvilimento delle masse, esclamando che solo la libertà può strappare i cittadini al culto del denaro e trarli dall’isolamento in cui vivono.
Ma questa libertà di cui parla Tocqueville non può essere una libertà puramente amministrativa. E’ un sentimento animato da qualcosa di profondo e di sacro. Tocqueville, che io sappia,  non usa queste parole, ma questo sentimento deve necessariamente avere qualcosa di sacro per poter portare i cittadini, come auspica il pensatore francese, a sentire ad ogni istante la patria, e per elevarli al di sopra degli interessi personali e della volgarità quotidiana.
           (continua al post successivo)

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