Questo libro è un’opera poco conosciuta e pochissimo letta. La lingua ha una sintassi necessariamente complessa, perché, trattandosi di un saggio storico di piccole dimensioni, per esporre in modo sintetico molti fatti e molte idee, l’autore ha dovuto costruire frasi dal giro ampio che richiedono una attenzione costante. Però, superate abbastanza facilmente le difficoltà di sintassi e di lessico (che è più antiquato di quello usato ne ‘I promessi sposi’), si rimane avvinti dalla lucidità e dal tono serrato dei ragionamenti di Manzoni, che sa scavare nei fatti, nei documenti, nei gesti e nelle parole di singoli personaggi, nei movimenti di gruppi e di folle con la penetrazione e la sensibilità del grande narratore che era. Quando descrive lo svolgimento di qualche episodio drammatico, il suo racconto (mai enfatico ma nemmeno sotto tono, sempre fatto con parole adeguate alla drammaticità della storia) suscita tensione, curiosità e partecipazione.
Ma
il suo merito maggiore è la capacità di ragionare, di collegare i fatti e di chiarirne il significato e l'importanza. Nelle sue ricostruzioni, anche il particolare di
carattere amministrativo, economico o fiscale viene valorizzato e diventa
significativo ed eloquente.
E’ molto interessante l’attenzione con cui Manzoni segue
un ragionamento di Mirabeau. Questi sosteneva che i rappresentanti del Terzo
Stato, deputati all’Assemblea nazionale, non si dovessero dichiarare
indipendenti dal Re.
“Per me, signori”, aveva detto Mirabeau, “credo il veto
del Re talmente necessario che vorrei piuttosto vivere a Costantinopoli, che in
Francia, se non l’avesse. Sì, lo dichiaro, non saprei cosa immaginare di più
terribile dell’aristocrazia sovrana di seicento persone, che domani potrebbero
rendersi inamovibili, doman l’altro ereditarie, e finirebbero, come gli
aristocratici di tutti i paesi del mondo, a invadere ogni cosa”.
Supponeva, si vede, commenta Manzoni, che, dopo aver
mostrato come potessero buttare a terra un ordine stabilito [cioè l’antico
regime], quei seicento avrebbero potuto crearne uno stabile a loro vantaggio,
ordire e tessere, con tutto il comodo, vasti disegni oppostissimi ai desideri e
alla aspettativa del Paese, dal quale avevano ogni loro forza; che, insomma, il
principio di una rivoluzione come quella, avrebbe potuto esserne anche la fine;
e qual fine! l’aristocrazia (pag. 97).
L’unica differenza fra la nuova aristocrazia intravista
da Manzoni, e il tempo presente è che oggi il complesso dei politici, democraticamente eletti dal popolo (parlo come il giornale la Repubblica) viene
chiamato 'casta’, odiata e disprezzata dalla gente (non parlo di popolo, perché è così
disgregato che forse non esiste più) ben più della vera aristocrazia
dell’ancien régime.
Anche
chi non condivide la sua condanna della Rivoluzione francese,
dovrebbe ammirare la forza intellettuale e l’acutezza investigativa del
Manzoni, che, pur appoggiandosi a una
vasta documentazione offerta da storici e memorialisti, sviluppa analisi, deduzioni
e conclusioni del tutto personali, facendole scaturire dall’esame dei fatti e
dei comportamenti dei protagonisti.
Per
tutte queste ragioni, ho trovato particolarmente offensiva e avvocatesca
l’osservazione che Luigi Salvatorelli (un mito della mia vita anteriore, di
quando cioè mi consideravo con orgoglio un membro del ceto medio riflessivo) fa
nel suo libro ‘Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870’.
Salvatorelli
definisce il piccolo capolavoro di Manzoni uno “scritto senile, che non
presenta alcun particolare interesse di pensiero, riducendosi a una specie di
requisitoria legalistica contro la Rivoluzione francese, cioè contro un fatto che
per sua natura doveva riuscire illegale” (pag. 163 dei Reprints
Einaudi, 1975).
Potrei portare diversi altri esempi del vezzo avvocatesco di Salvatorelli di chiudere le polemiche con queste generiche ovvietà, che sembrano sentenze piene di senso ma sono nella sostanza sbagliate e insignificanti. Qui vorrebbe far passare Manzoni per uno stupido Don Chisciotte che
rimproverava alla Rivoluzione la mancanza di legalità, ignorando che
una rivoluzione è illegale per definizione.
Ma
Manzoni diceva qualcosa di diverso, che Salvatorelli
non ha saputo capire o non ha voluto accettare: che la Rivoluzione aveva
distrutto la legalità esistente, senza essere capace di sostituirle
nessun’altra legalità. Per questo la Rivoluzione andò alla deriva per dieci anni, fino
al colpo di stato di Napoleone.
“Il
18 brumaire, scrive Manzoni a pag. 194, quando la Francia era stufa,
sdegnata, nauseata di una successione di oligarchie, quali atrocemente
sanguinarie, tutte più o meno oppressive, spogliatrici, insultanti, sprezzative
delle leggi anche imposte da loro, bastò l’apparire di alcuni granatieri nel
Consiglio dei cinquecento per farla finita, senza che si spargesse una stilla
di sangue”.
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