domenica 29 luglio 2012

Alessandro Manzoni, Storia incompiuta della Rivoluzione francese. Milano, Tascabili Bompiani, 1985. - Storici integri come magistrati e storici di parte come avvocati. - Luigi Salvatorelli (1886-1974).




Questo libro è un’opera poco conosciuta e pochissimo letta. La lingua ha una sintassi necessariamente complessa, perché, trattandosi di un saggio storico di piccole dimensioni, per esporre in modo sintetico molti fatti e molte idee, l’autore ha dovuto costruire frasi dal giro ampio che richiedono una attenzione costante. Però, superate abbastanza facilmente le difficoltà di sintassi e di lessico (che è più antiquato di quello usato ne ‘I promessi sposi’), si rimane avvinti dalla lucidità e dal tono serrato dei ragionamenti di Manzoni, che sa scavare nei fatti, nei documenti, nei gesti e nelle parole di singoli personaggi,  nei movimenti di gruppi e di folle con la penetrazione e la sensibilità del grande narratore che era. Quando descrive lo svolgimento di qualche episodio drammatico, il suo racconto (mai enfatico ma nemmeno sotto tono, sempre fatto con parole adeguate alla drammaticità della storia) suscita tensione, curiosità e partecipazione.
Ma il suo merito maggiore è la capacità di ragionare, di collegare i fatti e di chiarirne il significato e l'importanza. Nelle sue ricostruzioni, anche il particolare di carattere amministrativo, economico o fiscale viene valorizzato e diventa significativo ed eloquente.

E’ molto interessante l’attenzione con cui Manzoni segue un ragionamento di Mirabeau. Questi sosteneva che i rappresentanti del Terzo Stato, deputati all’Assemblea nazionale, non si dovessero dichiarare indipendenti dal Re.
“Per me, signori”, aveva detto Mirabeau, “credo il veto del Re talmente necessario che vorrei piuttosto vivere a Costantinopoli, che in Francia, se non l’avesse. Sì, lo dichiaro, non saprei cosa immaginare di più terribile dell’aristocrazia sovrana di seicento persone, che domani potrebbero rendersi inamovibili, doman l’altro ereditarie, e finirebbero, come gli aristocratici di tutti i paesi del mondo, a invadere ogni cosa”.
Supponeva, si vede, commenta Manzoni, che, dopo aver mostrato come potessero buttare a terra un ordine stabilito [cioè l’antico regime], quei seicento avrebbero potuto crearne uno stabile a loro vantaggio, ordire e tessere, con tutto il comodo, vasti disegni oppostissimi ai desideri e alla aspettativa del Paese, dal quale avevano ogni loro forza; che, insomma, il principio di una rivoluzione come quella, avrebbe potuto esserne anche la fine; e qual fine! l’aristocrazia (pag. 97).
L’unica differenza fra la nuova aristocrazia intravista da Manzoni, e il tempo presente è che oggi il complesso dei politici, democraticamente eletti dal popolo (parlo come il giornale la Repubblica) viene chiamato 'casta’, odiata e disprezzata dalla gente (non parlo di popolo, perché è così disgregato che forse non esiste più) ben più della vera aristocrazia dell’ancien régime.
Anche chi non condivide la sua condanna della Rivoluzione francese, dovrebbe ammirare la forza intellettuale e l’acutezza investigativa del Manzoni, che, pur  appoggiandosi a una vasta documentazione offerta da storici e memorialisti, sviluppa analisi, deduzioni e conclusioni del tutto personali, facendole scaturire dall’esame dei fatti e dei comportamenti dei protagonisti.
Per tutte queste ragioni, ho trovato particolarmente offensiva e avvocatesca l’osservazione che Luigi Salvatorelli (un mito della mia vita anteriore, di quando cioè mi consideravo con orgoglio un membro del ceto medio riflessivo) fa nel suo libro ‘Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870’.
Salvatorelli definisce il piccolo capolavoro di Manzoni uno “scritto senile, che non presenta alcun particolare interesse di pensiero, riducendosi a una specie di requisitoria legalistica contro la Rivoluzione francese, cioè contro un fatto che per sua natura doveva riuscire illegale” (pag. 163 dei Reprints Einaudi, 1975).
Potrei portare diversi altri esempi del vezzo avvocatesco di Salvatorelli di chiudere le polemiche con queste generiche ovvietà, che sembrano sentenze piene di senso ma sono nella sostanza sbagliate e insignificanti. Qui vorrebbe far passare Manzoni per uno stupido Don Chisciotte che rimproverava alla Rivoluzione la mancanza di legalità, ignorando che una rivoluzione è illegale per definizione.
Ma Manzoni  diceva qualcosa di diverso, che Salvatorelli non ha saputo capire o non ha voluto accettare: che la Rivoluzione aveva distrutto la legalità esistente, senza essere capace di sostituirle nessun’altra legalità. Per questo la Rivoluzione andò alla deriva per dieci anni, fino al colpo di stato di Napoleone.
“Il 18 brumaire, scrive Manzoni a pag. 194, quando la Francia era stufa, sdegnata, nauseata di una successione di oligarchie, quali atrocemente sanguinarie, tutte più o meno oppressive, spogliatrici, insultanti, sprezzative delle leggi anche imposte da loro, bastò l’apparire di alcuni granatieri nel Consiglio dei cinquecento per farla finita, senza che si spargesse una stilla di sangue”.















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