lunedì 16 luglio 2012

Alexis de Tocqueville, L'antico regime e la Rivoluzione. Roma, Longanesi, 1942. - Qualche osservazione sui giacobini e sull'Unione europea.



 

Non so se per fretta e distrazione o per cause di forza maggiore, legate forse alla difficoltà di lavorare negli anni agitati del tempo di guerra, la traduzione di questo libro, curata dallo storico Giorgio Candeloro, è scadente. Anche senza fare un confronto sistematico con il testo francese, mi sono accorto che il traduttore ha omesso o dimenticato parecchie frasi dell’originale (per una di queste, in cui Tocqueville parla con ammirazione della grandezza che la libertà politica dell’Inghilterra ha assicurato a quel paese, ho pensato ad una autocensura politica). Di Candeloro interprete di Tocqueville, dirò più avanti.
I giacobini sono una categoria di pensatori e di politici che non muore mai. L’Europa di oggi,  dominata da una casta di burocrati e di banchieri invisibili, onnipotenti e irresponsabili, segna il trionfo del giacobinismo.
Ciò che scriveva Tocqueville sugli effetti della cultura rivoluzionaria del Settecento, si adatta perfettamente anche all’Europa odierna:
“Sopra la società vera, con la costituzione ancora tradizionale, confusa e irregolare, con le leggi differenti e contraddittorie, i ranghi separati, le classi immutabili e i gravami diseguali, si elevava a poco a poco una società immaginaria, nella quale tutto pareva semplice e coordinato, eguale e giusto, conforme a ragione”.
“Quando si studia la storia della nostra Rivoluzione, scrive ancora  Tocqueville (ma le sue parole possono valere anche per la storia dell’Unione europea), si vede che essa è stata condotta esattamente con lo stesso spirito che fece scrivere tanti libri astratti sul governo. La stessa attrazione verso le teorie generali, i sistemi completi di legislazione e l’esatta simmetria delle leggi; lo stesso disprezzo dei fatti reali; la stessa fiducia nella teoria [...] Spaventoso spettacolo!”.
La differenza fra il tempo presente e quell'epoca rivoluzionaria non poi tanto remota è, però, che gli inventori e i sostenitori della odierna unificazione europea, immaginaria dispotica e pericolosamente antipopolare,  sono molto peggiori dei letterati e filosofi del Settecento. Questi ultimi avevano una idea fondamentale (un governo basato su regole semplici ed elementari, attinte alla ragione e alla legge naturale), che, nonostante la sua astrattezza, almeno “era scesa, scrive Tocqueville, sino alla folla, vi aveva preso la consistenza e il calore di una passione politica, in modo che si poterono vedere le teorie generali e astratte sulla natura delle società divenire l’argomento dei quotidiani discorsi fra oziosi, e infiammare perfino l’immaginazione delle donne e dei contadini”.
Oggi, invece, la retorica dell’unificazione europea, benché si sia concretata in atti politici ed economici devastanti, è rimasta retorica e non ha convinto nessuno. I popoli sono stati guidati come greggi di pecore. Ma, nonostante lo scetticismo, la passività e l'abulia generali, i fanatici dell'unificazione continuano a lanciare ammonimenti e profezie. Barbara Spinelli continuava a sostenere, pochi mesi fa su ‘Repubblica’, che, per rendere più stretti i vincoli europei, occorre una più completa cessione di sovranità nazionale; e l’enfatico Eugenio Scalfari raccontava recentemente in una trasmissione televisiva che lui era europeista già da ragazzo. Scalfari vuole sempre arrivare primo.
Scendendo a un altro ordine di grandezza, trovo divertente l’aneddoto del linguista-saggista Raffaele Simone a pag. 37 del suo libro ‘Il mostro mite’ (2008). Dopo aver descritto i comunisti come i soliti giacobini animati dalla passione di risanare il mondo e da un ottimismo irresponsabile, Simone racconta in una nota  che una sua amica, figlia di un importante dirigente del PCI, negli anni Sessanta voleva studiare diritto all’università, ma il padre la dissuase e quasi glielo impedì, perché nella imminente società socialista non ci sarebbe stato bisogno né di giudici né di avvocati: la morale socialista avrebbe sradicato il crimine.
Giorgio Candeloro opera una netta distinzione fra la critica alla cultura giacobina (uso un termine approssimativo) fatta da Tocqueville, e quella fatta da Hippolyte Taine, considerato uno storico molto meno importante. “In questo equilibrio nel giudicare la funzione rivoluzionaria dell’illuminismo, scrive Candeloro a pag. 372, sta la superiorità del Tocqueville sul Taine, il quale circa venti anni dopo di lui, nel primo volume delle ‘Origines de la France contemporaine’, nel giudicare lo spirito illuministico ritornò in sostanza ad un atteggiamento simile a quello dei controrivoluzionari”. A me, però, sembra che Candeloro si arrampichi sugli specchi e che le differenze fra i due storici francesi possano spiegarsi (per quel che ne so) con la diversità di temperamento e di stile e anche con la tanto maggiore quantità di spazio dedicato da Taine all’argomento. E, comunque sia, io non ho avuto l’impressione di una sensibile differenza qualitativa fra lui e  Tocqueville.
C’è stata un'azione concertata per svalutare l’opera di Taine. Gli storici che hanno glorificato il nostro Risorgimento, considerandolo figlio della splendida Rivoluzione francese, hanno cercato in tutti i modi di screditare Taine, che quella rivoluzione aveva aspramente criticata. Sembra che i patriottici intellettuali italiani non abbiano saputo reggere lo sguardo acuto, dissolvente e antiretorico dello storico francese. E’ rivelatrice una osservazione di Adolfo Omodeo a pag. 264 del suo libro ‘Studi sull’età della Restaurazione’ (Einaudi, 1970).
Omodeo scrive che Edgar Quinet, nella sua opera ‘La Révolution’, aveva sostenuto “contro le tesi di Edmund Burke e di Joseph de Maistre [i controrivoluzionari!] la razionalità piena e profonda della Rivoluzione [francese]. La banale ripresa di tali motivi burkiani da parte del Taine doveva fare obliare tale conquista della critica storica della Rivoluzione”.
A parte il fatto che solo un professore che non alza mai gli occhi dai suoi libri può cercare nella storia una razionalità piena e profonda, l'affermazione di Omodeo non pare congrua e proporzionata. Che Taine, con la sua banalità, abbia fatto 'obliare' la grande conquista di Quinet, sembra un fatto che, per scarsa coerenza, non si regge in piedi molto bene.  O forse, dopotutto, Taine non era così banale.
Luigi Salvatorelli, nel suo libro 'Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870' (Reprints Einaudi, 1975), scrive: "La critica del Cuoco ai rivoluzionari napoletani del 1799 ricorda - in anticipo - quella del Taine ai rivoluzionari francesi, e ambedue hanno un valore storico assai ristretto... Secondo lui, i Francesi, dovendo riformare molti abusi, furono costretti a risalire a principii molto astratti, della più astrusa metafisica, e caddero nell'errore solito in simili speculatori astratti di confondere le proprie idee con le leggi della natura". 
Salvatorelli, con disinvolta sicurezza, afferma che "il Cuoco non si accorge della contraddizione iniziale del suo ragionamento". E quale sarebbe questa contraddizione? Il Cuoco, secondo Salvatorelli, non si sarebbe accorto che se i rivoluzionari francesi fecero quel che fecero, lo fecero perché era giusto farlo. Bella tautologia che non spiega niente! "Se i Francesi furono costretti a risalire a principii molto generali dalla necessità di riformare molti abusi, questo significa che la generalità dei principii da essi proclamati nel 1789 rispondeva per l'appunto alle esigenze della loro azione". Ma banalità del genere si sono dette anche per giustificare il regime di Stalin.
Ancor più rivelatore è il tentativo di Omodeo di interpretare l’opera di Tocqueville all’interno di una visione patriottico-risorgimentale. “Ma del Tocqueville stesso, scrive Omodeo a pag. 15, noi non intenderemo l’importanza se non lo connettiamo con gli svolgimenti che quelle idee ebbero nel Cavour e in non pochi uomini dell’Inghilterra vittoriana”.
La prosa di Omodeo è insopportabile e l’affermazione che Cavour si è ispirato alle idee di Tocqueville è una mistificazione che fa venire i brividi. Sembra di leggere un editoriale di Eugenio Scalfari.



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