In un articolo recente (Il Gazzettino, 18 maggio scorso), Massimo Fini scrive che “non esiste più una critica letteraria, per la semplice ragione che non esiste più la letteratura se per tale si intende il romanzo. Per un paio di secoli il romanzo è stato la forma di espressione della borghesia. Scomparsa la borghesia come classe sociale dominante in Italia (all’incirca negli anni Sessanta) lentamente è morto anche il romanzo. Oggi al posto della borghesia, classe strutturata, c’è un ceto medio indifferenziato i cui scrittori, per dirla col Gaber di ‘Trani a gogò’, ‘parlano di sé fra sé e sé’ ”.
Massimo Fini è un giornalista che leggo sempre con
interesse, però ammiro più il coraggio che dimostra nel criticare con ferocia i personaggi pubblici del nostro paese, che non la lucidità
e la precisione delle sue analisi. In qualche altra nota di questo blog, ho
scritto che il suo stile sciatto mi dispiace. Mi sembra che i suoi articoli (e
anche qualche suo libro) siano spesso scritti con una specie di
svogliatezza o di lezioso sentimentalismo, e non abbiano quel tono sostenuto che è segno di
idee chiare e di convinzione appassionata.
Solo così posso spiegarmi questo soprendente e imperdonabile giudizio su Bossi, scritto su 'Il Fatto Quotidiano' del 7 aprile scorso:
"Infine, due parole su Bossi. Considero Umberto Bossi l’unico, vero, uomo politico comparso sulla scena negli ultimi vent’anni, il solo animato da un’autentica, disinteressata, passione che ha finito per pagare con la salute. E in quest’ora della sua fine politica voglio dirgli, con rispetto, con ammirazione e con affetto: grazie Umberto".
Solo così posso spiegarmi questo soprendente e imperdonabile giudizio su Bossi, scritto su 'Il Fatto Quotidiano' del 7 aprile scorso:
"Infine, due parole su Bossi. Considero Umberto Bossi l’unico, vero, uomo politico comparso sulla scena negli ultimi vent’anni, il solo animato da un’autentica, disinteressata, passione che ha finito per pagare con la salute. E in quest’ora della sua fine politica voglio dirgli, con rispetto, con ammirazione e con affetto: grazie Umberto".
I giudizi che Fini dà ora sulla letteratura mi sembrano tagliati con l’accetta, anche se, per quanto posso ricordare, sono in circolazione da una trentina d’anni. Col tempo avrebbero potuto acquistare un po' di chiarezza e qualche sfumatura.
Fini dice che la borghesia come classe dominante è
scomparsa e che al suo posto c’è un immenso ceto medio indifferenziato. Ma il
ceto medio non ha preso il posto della borghesia, si è allargato, piuttosto, assorbendo contadini e operai. I padroni delle ferriere non ci sono più, ma una
classe dominante c’è sempre. E, anzi, è più dominante che mai. Esistono,
inoltre, molte sottoclassi dominanti,
perché ogni corporazione del ceto medio (il quale non è affatto indifferenziato),
quando può (cioè quando ha il monopolio di una professione, di un mestiere o di un servizio qualsiasi), taglieggia tutte le altre.
Insomma, la situazione è complicata e, sul piano sociale, per
niente appiattita. Il conformismo dilaga, invece, sul piano delle opinioni e dei gusti. Nella sostanza, a me sembra che la società di oggi non sia
molto diversa da quella dei tempi di Balzac, di Dickens o di Maupassant, e che
i protagonisti della vita pubblica siano ancora personaggi simili ai Rastignac, ai Nucingen e ai Bel-Ami, con il loro seguito di Uriah
Heep.
Che non ci siano oggi romanzieri all’altezza di
questi personaggi, non significa automaticamente che il genere 'romanzo' sia
morto. Siamo frastornati e confusi da mode culturali, o pseudo-culturali, che hanno attenuato o
dissolto il sentimento della realtà in larghissime zone della popolazione (tra l'altro, hanno distrutto la scuola pubblica). Ma
la realtà, benché completamente mistificata, è pur sempre qui, addosso a noi, e ci
preme con crescente brutalità. Il ritorno ad un vivo sentimento della realtà e alla sua comprensione critica, non dico che sia
prossimo né, tanto meno, inevitabile, ma rimane l’unica via di salvezza (culturale, politica, economica). Forse, fra due o tre generazioni, un figlio di immigrati extra-comunitari ci darà un grande romanzo italiano.
La critica letteraria, quella vera (alla Luigi
Russo), dovrebbe aiutarci a ritrovare il senso del reale. Oggi, certo, i critici professionali sono vacui, si esprimono con insopportabili frasi fatte e sono completamente impregnati delle mode correnti. Pochissimi sono ispirati dall’idea che cultura e vita morale
siano, se non la stessa cosa, almeno due sfere di attività strettamente connesse.
Però, quando leggo su Internet i commenti che i normali lettori
fanno sui romanzi più noti in circolazione, trovo che, nonostante tutto, ci sono critici dilettanti che non hanno perduto il senso della misura e sono capaci di dare giudizi
sorprendentemente concisi e penetranti.
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