sabato 10 marzo 2012
Il Piemonte nel Risorgimento italiano. 2^ puntata. Patrick Keyes O'Clery: La Rivoluzione italiana: come fu fatta l'unità della nazione. Ares, 2000.
Fu in quinta elementare (o forse già in terza) che ebbi il primo dubbio sull’unificazione italiana e sulla retorica risorgimentale. Ero molto meravigliato che gli stessi uomini che avevano combattuto per la libertà e l’indipendenza d’Italia, volessero, pochi anni dopo aver coronato il loro sogno (per usare più o meno le loro parole), invadere altri paesi e soffocare la libertà e l’indipendenza di altri popoli. Quando, alcuni decenni più tardi, mi si è presentato alla mente il problema del Risorgimento e della continuità fra passato e presente, e ho cominciato a leggere qualche libro, quel sentimento provato da ragazzino è tornato vivo spontaneamente, ma se prima era solo stupore, adesso era rabbia.
Il libro di Patrick Keyes O’Clery è un’opera singolare e utile, scritta con uno stile chiaro, vivace e appassionato da un testimone di parte degli eventi narrati.
Nato in Irlanda nel 1849, a solo diciotto anni si arruolò negli zuavi di Pio IX e combatté a Mentana contro i garibaldini. Nel settembre del 1870 tornò in Italia per difendere Pio IX e Roma dall’attacco dell’esercito italiano. In Inghilterra svolse attività parlamentare a favore dell’autonomia politica dell’Irlanda e si dedicò alla professione di avvocato. Morì nel 1913. In questa edizione sono raccolte due sue opere storiche: La rivoluzione delle barricate, del 1875, e La formazione del regno d’Italia, del 1892.
O’Clery è uno storico dichiaratamente di parte, ma non mi sentirei di dire che è un fazioso; almeno non lo è nel senso in cui lo è stato Benedetto Croce, quando nella sua Storia del Regno di Napoli ha scritto che la dinastia borbonica aveva chiamato al suo soccorso le rozze plebi “non trovando quasi altri campioni che truci e osceni briganti”. (Peccato che le plebi siano rozze: ma la loro vita e il loro benessere valgono forse di meno per questo? E poi: i truci briganti non erano staccati e diversi dalle rozze plebi, ma anzi le rappresentavano a tal punto che i soldati piemontesi fucilavano chi era solo sospettato di portar loro un tozzo di pane).
O’Clery argomenta tutti i suoi giudizi. Da ex soldato volontario, spiega le manovre militari in battaglia con grande ricchezza di particolari, e mostra chiaramente quanto i generali piemontesi, e poi italiani, sempre a rimorchio di potenti alleati stranieri, fossero inetti e incompetenti con gli avversari più forti, mentre erano feroci e spietati contro quelli più deboli. E questa tradizione di viltà e di parassitismo si è mantenuta viva, dall’Italia monarchica e liberale a quella fascista, fino all’Italia democratica e repubblicana di oggi.
Il libro, pur ricco di analisi e di dettagli, sfiora soltanto tanti argomenti che per me debbono essere ancora approfonditi (per esempio, le condizioni di vita nel Regno delle Due Sicilie, nel Granducato di Toscana, ecc.). Però c'è una cosa su cui non posso essere d'accordo con O'Clery, perché non mi sembra nemmeno superficialmente documentata, ed è il giudizio positivo sul governo dello Stato della Chiesa e in particolare su Mauro Cappellari, Gregorio XVI, il Papa che Giuseppe Gioachino Belli ha rappresentato con atroce sarcasmo in decine di sonetti.
Per correggere (almeno poeticamente) l’ottimismo di O’Clery, riporto il sonetto n. 92, del 27 novembre 1830, intitolato “Er ciàncico” (cioè ‘il mangiare a scrocco’):
“A dà retta a le ciarle der governo,
ar Monte nun c’è mai mezzo baiocco.
Je vienissi accusí, sarvo me tocco,
un furmine pe fodera d’inverno!
E accusí Cristo me mannassi un terno,
quante gente ce campeno a lo scrocco:
cose, Madonna, d’agguantà un batocco
e dàje in culo sin ch’inferno è inferno.
Qua magna er Papa, magna er Zagratario
de Stato, e quer d’Abbrevi e ’r Cammerlengo,
e ’r tesoriere, e ’r Cardinàl Datario.
Qua ’gni prelato c’ha la bocca, magna:
qua… inzomma dar piú merda ar majorengo
strozzeno tutti-quanti a sta Cuccagna”.
Le considerazioni conclusive di O’Clery mi sembrano, oltre che ammirevolmente critiche, molto ragionevoli e profetiche:
“Sono l’ultimo a credere che non fosse necessario mutare lo stato delle cose in Italia, l’ultimo a negare che vi fosse del buon senso nell’aspirazione all’unità nazionale. Ma c’è una differenza tra le riforme operate da veri statisti e la Rivoluzione rossa, perché l’unità costruita per mezzo della cancellazione delle libertà e delle istituzioni locali, la riduzione di tutto lo Stato a un sistema burocratico centralizzato, è un’unità che porta con sé i germi della propria distruzione. Non si saprà mai quanto l’Italia avrebbe guadagnato se, invece di essere trascinata con violenza all’unità voluta da Cavour, fosse stata unificata da un sistema federale, tale da non soffocare le autonomie locali del Sud, del Centro e del Nord... La leggenda secondo cui la Rivoluzione iniziata nel 1856 e terminata nel 1870 sia stata opera della totalità del popolo italiano ha basi davvero fragili. Essa fu l’opera di un partito, compiuta interamente con l’aiuto di armi straniere, nell’interesse di una piccola parte del popolo e contro le proteste armate di interi distretti del Paese” (pagine 738 e 739). Antonio Gramsci e Piero Gobetti non hanno scritto, trent’anni dopo O’Clery, cose molto diverse. Dulcis in fundo: “Ogni disastro che possa travolgere questa monarchia sarebbe solo la conseguenza del suo recente passato”. E l’8 settembre 1943 è arrivato puntualmente a suggellare la fine di una dinastia senza onore.
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