martedì 21 gennaio 2025

Ivan Turgenev (1818-1883). Rudin. Biblioteca universale Rizzoli, 1964

Dmìtri Nikolàievic’ Rudin è un uomo di trentacinque anni, di pochi mezzi ma di grande cultura, alto, affascinante ed eloquente. Ospite per una sera nella casa di campagna della ricca proprietaria Daria Michàilovna Lasùnskaia, la sua figura, la sua dialettica e il tono appassionato delle sue parole conquistano la padrona di casa, che in campagna si annoia e aspira a conversazioni di qualità superiore, e lasciano sbalorditi gli altri ospiti. “Dalla prontezza con cui tutti tacevano appena Rudin apriva bocca, si poteva giudicare della forza dell’impressione da lui prodotta”. Invitato e protetto dalla Lasùnskaia, Rudin rimane suo ospite per alcuni mesi. “Egli parlava in una maniera magistrale, trascinando […] Tutti i pensieri di Rudin sembravano rivolti all’avvenire, e questo conferiva ad essi qualcosa di impetuoso e di giovane […] Rudin parlava di ciò che conferiva un significato eterno alla temporanea vita dell’uomo”. Natàlja, figlia diciottenne della proprietaria, che conosce a memoria tutto Puskin, è molto impressionata da questi discorsi. Rudin, parlando con lei, dice: “Sì, io devo agire. Non devo nascondere le mie capacità, se le ho; non devo sprecare le mie forze nelle sole chiacchiere, nelle vuote, inutili chiacchiere”. Le sue parole, scrive Turgenev, scorrevano come un fiume. Parlava meravigliosamente, con ardore, con convinzione, del disonore di essere pusillanimi e pigri, della necessità di agire. Una ragazza sensibile e riflessiva come Natàlja non poteva non innamorarsi di lui, e anche Rudin, esagerando enfaticamente le proprie emozioni, le dice di amarla. Ma la mamma aspira, per la figlia, a un  partito ricco ed è pronta a dare il benservito all’ospite affascinante ma spiantato. L’appassionata Natàlja, ferita dalla grettezza materna, è disposta a rompere con la famiglia e a partire con Rudin, ma lui,  per mancanza di coraggio e per tiepidezza di sentimento, respinge lo slancio della ragazza e lascia la casa per riprendere il  suo vagabondaggio fra protettori e amici d’occasione. Questo è il punto culminante di una storia molto semplice che, dopo aver presentato l’intellettuale progressista russo della metà del XIX secolo, pieno di idealità e di progetti di rinnovamento, ne smaschera l’inconsistenza e l’inettitudine. Il romanzo è acuto e si legge con grande piacere per la sua arguzia e delicatezza; però lo sviluppo psicologico dei personaggi principali non è del tutto naturale. Per esempio, la determinazione, la chiarezza di idee e la tempra morale rivelate da Natàlja nell’ultimo colloquio con l’innamorato sono troppo improvvise e sembrano una sovrapposizione dell’autore. Anche la coerenza artistica dell’intero racconto mi sembra incrinata. La partenza di Rudin segna la conclusione del racconto; gli avvenimenti successivi, narrati nella  breve seconda parte, hanno il sapore di una aggiunta artificiosa e di una correzione della storia.  Nella prima parte, Michailo Lezniòv, un vicino di casa che frequenta il salotto della Lasùnskaia, riconosce in Rudin un amico di gioventù. Per tutto il tempo che il fascinoso intellettuale era stato nelle grazie della ricca signora, Lezniòv (che certamente guarda le cose con l’occhio di Turgenev) con tranquilla perspicacia ne aveva rivelato le debolezze e i difetti agli amici più intimi. “Confermo che Rudin realmente non mi piace […] E’ un uomo straordinariamente intelligente, sebbene in fondo vuoto […] Un despota nell’anima, pigro, poco competente […] Gli piace vivere a spese altrui, rappresentare una parte… ma il brutto è che è freddo come il ghiaccio , […] e lo sa e si finge ardente […] Il male è ch’egli non è onesto […] Alla sua età è vergognoso divertirsi al suono dei propri discorsi”. Addirittura Lezniòv afferma che Rudin, a differenza di Tartufo, non sa nemmeno quello che vuole. Passano appena due anni dagli avvenimenti narrati, e Michailo Lezniòv, parlando con le stesse persone, cambia completamente il suo giudizio su Rudin: “Non si infierisce su chi è caduto […] Io voglio parlare di ciò che vi è in lui di buono, di raro. In lui c’è l’entusiasmo, la qualità più preziosa ai nostri tempi […] Non è un attore, non è un briccone, né uno scroccone, egli vive a spese altrui come un bambino […] Chi ha il diritto di dire che le sue parole non abbiano gettato tanta buona semenza nelle giovani anime capaci di azione più di lui?...”. Passano ancora alcuni anni, e in un albergo di una lontana città Lezniòv incontra per caso Rudin, invecchiato e stanco. Pranzano insieme. Rudin ammette i suoi errori e le sue debolezze. Lezniòv è pieno d’affetto. “Io suscito la tua compassione” dice con voce sorda Rudin. “No, ti sbagli. Tu m’ispiri rispetto […] In te brucia la fiamma dell’amore della verità […] Tu hai fatto ciò che hai potuto, hai lottato finché hai potuto…”. E’ una scena, questa, abbastanza commovente, che però dissolve la personalità di Rudin come era stata descritta nella prima parte. Turgenev qui diventa indulgente, più o meno come quel vecchio padre che, in un racconto di Čechov, scrive al figlio una lettera piena di solenni rimproveri e poi, alla fine, gli racconta che la vacca ha partorito un bellissimo vitellino e altri lieti e meno lieti fatterelli di famiglia e di villaggio.

 

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