mercoledì 28 dicembre 2022

Vasilij Grossman (1905-1964). Vita e destino. Romanzo. Milano, Jaca Book, 1998. Prima parte

Ho letto questo romanzo, che è la continuazione di ‘Stalingrado’, nella prima traduzione italiana di Cristina Bongiorno, del 1984. Mi pare che l’italiano di questa traduzione, che pure è meritoria, vista la mole dell’opera (856 pagine), sia piuttosto trasandato. Tuttavia non posso escludere che certi passaggi un po’ confusi appartengano al testo originale. In ogni caso, queste imperfezioni, come anche molte lungaggini dell’opera, che non ha avuto dall’autore l’ultima revisione, non tolgono nulla al suo valore. “Vita e destino” non è solo un mosaico immenso di storie, di personaggi, di situazioni e di luoghi, ma è un’opera che scava anche in profondità, sia nella storia russa che nel passato e nella giovinezza dei personaggi. Continuamente i protagonisti del romanzo ricordano episodi della loro vita anteriore all’invasione nazista e ripensano a come avevano giustificato la terribile carestia provocata nel 1932-33 dalla espropriazione forzata della terra e a come avevano accettato in silenzio le purghe del 1937 e l’arresto e la fucilazione di amici e parenti che sapevano innocenti. Nel clima rovente della guerra antifascista si riscoprono l’uguaglianza e il merito. Chi, nel passato, aveva compiuto atti di vile sottomissione al potere bolscevico e magari aveva denunciato parenti o amici, non cambia ora i propri sentimenti, ma si adegua opportunisticamente ai nuovi valori, pronto a tradire di nuovo. Ma coloro che avevano sostenuto la politica di Stalin credendo sinceramente nella bontà dello Stato sovietico, sono indotti ora da una guerra immensa, che ha bisogno di tutte le risorse umane del paese, a riflettere con spirito critico e angoscia sul proprio passato. Krymov, per esempio, bolscevico ortodosso e ora commissario politico dell’esercito, “non aveva mai esitato, era stato sempre pronto ad eliminare quei rettili di guardie bianche, di menscevichi e quelle canaglie di socialisti-rivoluzionari, e poi i kulaki [i contadini piccoli proprietari]; non aveva mai provato nessuna pietà per i nemici della rivoluzione”, tuttavia lui, comunista fanatico ma di sentimenti puri, trovandosi ora in mezzo ai soldati di Stalingrado ha la sensazione non di guidare ma di essere guidato. “Gli venivano in mente le lezioni di marxismo-leninismo che teneva all’università prima della guerra, quando lui e il suo uditorio provavano una noia mortale a studiare, come un catechismo, il Breve corso di storia del partito”. Nell’inferno di Stalingrado, Krymov, che prima della guerra si era fatto una scorza d’indifferenza per i morti provocati dalla rivoluzione, prova compassione alla vista di un semplice corpo abbandonato. “In quel momento ebbe uno scossone: quel corpo immerso nell’eternità della morte giaceva indifeso, rattrappito come un uccellino, con le gambe raccolte come se avesse freddo”. E sbucando, attraverso un tunnel, nella Casa 1/6, piccola postazione avanzata difesa da pochi soldati sovietici, “la prima cosa che gli saltò agli occhi furono le facce degli uomini che gli si presentarono davanti, di una calma addirittura olimpica”. E Krymov prova un sentimento indescrivibile, insieme di felicità e leggerezza, come se tornasse a vivere con tutta la forza della mente, della volontà e del suo ardore di bolscevico.

Un altro importante personaggio è il colonnello Novikov, comandante di un reparto di carri armati, critico verso la burocrazia bolscevica anche prima della guerra. Combattendo a Stalingrado, “gli calò pesantemente addosso l’odio per la vita passata, quando certi alti papaveri e generaloni assolutamente incompetenti in materia militare ma avvezzi al potere, alla buona cucina, alle decorazioni, gli accordavano benignamente il loro appoggio. Persone che non conoscevano neppure il calibro dei pezzi d’artiglieria, che non sapevano leggere correttamente ad alta voce un discorso scritto per loro, né consultare una carta geografica senza fare confusione, che sbagliavano gli accenti delle parole e commettevano errori di grammatica”. Ora Novikov, nella esplosione di forze ed energie nuove provocata dalla guerra, sente che i nazisti saranno sconfitti, perché “questa mole di cervelli, di operosità, di audacia e calcolo, di abilità operativa, di rabbia, questa ricchezza spirituale di ragazzi del popolo, studenti, allievi della decima classe, tornitori, guidatori di trattori, maestri, elettricisti, conducenti di autotreni, cattivi, buoni, energici, ridanciani, solisti di coro, fisarmonicisti, cauti, lenti, temerari – si assocerà, si fonderà insieme e unendosi dovranno vincere, sono ormai troppo ricchi”. Il lungo elenco di mestieri e di tipi umani, come tutti gli altri lunghi elenchi di Grossman (anche di oggetti domestici) è forse noioso e inestetico, però dà la misura di quanto sia largo il suo orizzonte morale, il suo sentimento di solidarietà con il popolo, di amore per la terra russa, per le case, per tutto. Questo intenso sentimento di solidarietà con il popolo vive nel cuore di quasi tutti i personaggi russi del romanzo: nei soldati e negli ufficiali superiori. In un momento in cui la sorte della città era ancora molto incerta sotto i colpi spietati dei nazisti, il comandante in capo Eremenko osserva i suoi soldati. “Nel grido ininterrotto della fanteria di Stalingrado che si lanciava al contrattacco c’era qualcosa non solo di minaccioso, ma di rattristante e penoso. A-a-a-a, l’urlo si dilatava sul Volga. Non più entusiasmo né baldanza, ma tristezza d’animo, come se dicesse addio a tutto ciò che amava, come se invitasse le persone care a svegliarsi e ad alzare la testa dal cuscino, per sentire un’ultima volta la voce del padre, del marito, del figlio, del fratello. L’angoscia dei suoi uomini strinse il cuore del generale... Sentiva che la volontà del popolo era più grande della sua comprensione, del suo potere e della sua volontà”.

(continua al post successivo)
 

Nessun commento: