mercoledì 2 febbraio 2022

Michele Cervantes di Saavedra, Don Chisciotte della Mancia. Edizioni A. Barion, 1933. 2 volumi. (Seconda parte)

Non c'è alcuno spirito feudale né alcun segno di follia nel discorso che don Chisciotte fa al canonico in difesa dei libri di cavalleria, ma anzi c'è una sensibilità vibrante e moderna. "Mi creda, vossignoria, legga questi libri, e vedrà dileguarsi ogni melanconia che la opprimesse, e migliorare la sua condizione comunque affannosa. Se devo parlare di me, io posso affermare che dal tempo in cui mi sono dato alla cavalleria errante mi sento valoroso, cortese, liberale, gentile, generoso, splendido, audace, piacevole, paziente sopportatore di fatiche, di prigionia, d'incantesimi". Non vanno prese sul serio le ultime righe di Cervantes che concludono il romanzo ("Non altro volli, se non destare l'odio e l'aborrimento degli uomini per le false e spropositate storie dei libri di cavalleria"): esse sono un conclusivo atto di finto ossequio al perbenismo imperante. Mi pare, dunque, che la saggezza di don Chisciotte, come ho documentato, anche se solo per accenni, sia vasta e profonda e, direi, universale, e che sia alimentata dal suo amore per gli ideali della cavalleria. Eppure il critico tedesco Erich Auerbach, nel suo grande libro 'Mimesis', scrive che quella di don Chisciotte "è una saggezza normale e per così dire media... è l'intelligenza, la nobiltà, la costumatezza e la dignità d'un uomo prudente ed equilibrato". Ma dichiarare di essere "un assertore della verità anche a prezzo della vita", come fa don Chisciotte, non è da uomo prudente ed equilibrato; è invece il segno di una saggezza estrema. Auerbach inasprisce il giudizio affermando che il nostro cavaliere "è anche piuttosto conservatore e in ogni modo consenziente con lo stato di cose esistente". Certo, lui rispetta la monarchia e la nobiltà, ma per meritare un attestato di anticonformismo, bisognava forse vagheggiare, all'inizio del Seicento, un rovesciamento delle istituzioni e delle classi sociali? Benché ossequioso verso i nobili e le autorità, don Chisciotte parla a tutti con la massima sincerità e, quando è necessario, risponde con grande fermezza anche al duca che lo ospita. Non va nemmeno sottovalutato il fatto che tratta il suo scudiero, un contadino che non sa leggere e scrivere, infinitamente più in basso di lui nella scala sociale, con affetto e sensibilità, e spesso con vera considerazione. Il suo culto della libertà è una garanzia del suo spirito d'indipendenza. "La libertà, Sancio, è uno dei doni più preziosi concessi agli uomini dal cielo: tutti i tesori che si trovano in terra o in fondo al mare non possono starle a confronto: e per la libertà, come per l'onore, si può avventurare la vita". Ecco, dunque, quali sono i principi che sostengono don Chisciotte, e per i quali egli è disposto a morire: la verità, la libertà e l'onore. Ma questi non sono i valori di un uomo prudente e conformista. Per Auerbach, don Chisciotte "possiede saggezza e bontà indipendentemente dalla sua follia", e la follia, afferma il critico, è  nettamente separata dalle virtù, come se, aggiungo io, il don Chisciotte saggio fosse un dottor Jekyll e quello folle un mister Hyde. Ma i numerosi passaggi che ho riportato dimostrano che tra follia e saggezza c'è in don Chisciotte uno stretto legame e che, se lui non credesse nei valori della cavalleria, sarebbe solo un uomo modestamente giudizioso e non il poeta libero e visionario che è. Le sue assurde imprese non tolgono niente alla sua ricca e complessa personalità.

(continua al post successivo)
 

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