“La mia timidezza
è stata il flagello di tutta la mia esistenza; pareva che m’ottenebrasse
perfino i sensi, m’inceppasse la lingua, m’annebbiasse i pensieri, sconvolgesse
le mie espressioni. A tali abbattimenti andavo meno soggetto dinanzi a persone
d’ingegno che dinanzi agli sciocchi, poiché avevo la speranza che quelli mi
capissero, e ciò mi rendeva disinvolto”. Credo che questa sintetica descrizione di sé (tratta da "Riflessioni e pensieri inediti", Einaudi 1943), così sincera e vera da riuscire simpatica e un po' umoristica, e così vicina allo spirito di Pascal, sia sufficiente per capire che Montesquieu è nella tradizione dei grandi moralisti francesi. Questo libretto scritto con tanta dottrina e acume potrebbe essere considerato un piccolo manuale, morale più che pratico (e a volte noioso come un taccuino di frettolosi appunti), ad uso degli uomini di governo. Percorrendo a volo di velocissimo uccello tutta la storia di Roma, Montesquieu trova che i momenti più significativi dell'ascesa e della decadenza dell'antica Roma sono legati alla presenza o alla perdita di valori soprattutto morali. "I Romani arrivarono a comandare a tutti i popoli non solo grazie alla loro arte della guerra, ma anche grazie alla loro prudenza, alla sagacia, costanza, ambizione di gloria e amor di patria. Quando, sotto gli imperatori, tutte queste virtù svanirono, rimase solo l'arte militare, con la quale, nonostante la debolezza intrinseca della tirannia, i Romani poterono conservare ciò che avevano conquistato. Ma quando la corruzione penetrò anche nella vita militare, essi furono alla mercé di tutti i popoli". Per quel che ne so, questi giudizi provengono da Machiavelli ("Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio") e saranno ripresi con grande passione da Leopardi nello Zibaldone. Del rimpianto delle virtù antiche il nostro grande poeta ha fatto un atto di accusa acuto e implacabile contro la società moderna. Il libretto di Montesquieu si chiude con un desolato e poetico epitaffio sulla tomba dell'Impero romano d'Oriente, crollato nel XV secolo: "Non ho il coraggio di parlare delle miserie che seguirono; dirò soltanto che, sotto gli ultimi imperatori, l'Impero, ridotto ai sobborghi di Costantinopoli, finì come il Reno, che non è che un ruscello quando si perde nell'Oceano".
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