sabato 5 giugno 2021

John J. Mearsheimer, Stephen M. Walt: La Israel lobby e la politica estera americana. Mondadori, 2007.

 

 John Joseph Mearsheimer, nato nel 1947, insegna scienza della politica a Chicago; Stephen Martin Walt, nato nel 1955, insegna relazioni internazionali ad Harward. Questo loro libro, fondato su una viva e drammatica documentazione (soprattutto articoli di giornale e dichiarazioni di governi, di associazioni e uomini politici), non è un obiettivo (nel senso di neutrale) trattato accademico, ma una appassionata e coraggiosa perorazione in difesa dei veri interessi americani. La politica estera degli Stati Uniti è condizionata dal governo di Israele, che agisce in America attraverso la Israel lobby: una coalizione informale di organizzazioni e individui che si adoperano per spingere i governi statunitensi a fornire aiuti e appoggio diplomatico a Israele. Poiché la Israel lobby è diventata una delle lobby più potenti e più ricche degli USA, i candidati alla presidenza e alle cariche politiche più importanti prestano molta attenzione ai suoi desideri. E' molto improbabile che uno di questi candidati critichi, anche solo superficialmente, la politica di Israele, perché, se lo facesse, sarebbe rapidamente costretto a farsi da parte o a convertirsi precipitosamente. Hillary Clinton, per esempio, si era dichiarata nel 1998 favorevole alla creazione di uno Stato palestinese e nel 1999 aveva abbracciato pubblicamente la moglie di Arafat. Ma quando entrò in prima persona nell'agone politico, la signora Clinton divenne un'ardente fautrice di Israele: si presentò a un raduno filoisraeliano per esprimere il suo vigoroso appoggio alla devastante guerra di Israele contro il Libano, nel giugno 2006. Oggi gode del robusto supporto finanziario e politico della Israel lobby. Altro clamoroso esempio: il senatore Barack Obama, che in passato aveva manifestato simpatia e comprensione per le sofferenze e la causa dei palestinesi, da candidato presidenziale ha partecipato a una conferenza della più potente lobby filoisraeliana, dove ha chiarito ogni possibile equivoco sulla propria posizione riguardo a Israele, assicurando che non avrebbe fatto nulla per modificare le relazioni fra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico. Quanto a George Bush figlio (ma è solo un altro esempio fra tanti), la sua posizione è sintetizzata dal giornalista Thomas L. Friedman del New York Times all'inizio del 2004: "Sharon tiene il leader palestinese Arafat agli arresti domiciliari nel suo ufficio di Ramallah, e il presidente Bush agli arresti domiciliari nella Stanza Ovale. Sharon ha fatto circondare Arafat da carri armati, e Bush da lobbisti ebrei e cristiani filoisraeliani, da un vicepresidente (Dick Cheney) che fa tutto quello che Sharon gli dice di fare, e da politici di rango inferiore... e tutti quanti cospirano per far sì che il presidente non faccia alcunché". L'aiuto americano a Israele , economico e militare, è enorme. E' stato calcolato che, dal 1948 al 2005, esso ammonta a circa 154 miliardi di dollari (sovvenzioni a fondo perduto, non prestiti). Ma il totale effettivo è in realtà molto superiore perché gli Stati Uniti forniscono anche altre forme di assistenza materiale non incluse nel budget del sostegno all'estero. 

I due autori, Mearsheimer e Walt, affermano in modo categorico che è ora che i governi degli Stati Uniti smettano di avere una soggezione così autolesionista nei confronti di Israele e comincino a trattarlo come un paese normale e a condizionare l'aiuto americano al ritiro dai Territori occupati e al riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Solo in questo modo Israele finirebbe di essere per gli USA un peso morto che con la politica azzardata ed espansionistica dei suoi governi rende l'America più povera e insicura, esposta ai contraccolpi del terrorismo internazionale. Secondo la retorica diffusa per decenni da Israele e dalle lobby amiche, il sostegno degli Stati Uniti è giustificato dal fatto che entrambi i paesi sarebbero impegnati in una battaglia comune contro lo stesso nemico, il terrorismo, e per la difesa dei comuni valori morali e democratici dell'Occidente. Ma per la verità gli Stati Uniti hanno oggi un problema con il terrorismo soprattutto a causa del loro lungo sostegno ad Israele, il quale è odiato non perché sarebbe un paese occidentale moderno e democratico, ma perché ha occupato territori arabi che non gli appartenevano, compresi alcuni importanti luoghi sacri, e ne ha oppresso la popolazione. Israele non ha mai voluto veramente la creazione di uno Stato autonomo palestinese. Come hanno chiarito gli studi più recenti, in certe occasioni i capi sionisti si sono mostrati disposti ad accettare la divisione della Palestina, ma si è sempre trattato di una manovra tattica, non del reale obiettivo strategico: non c'era alcuna intenzione di convivere con un vero Stato palestinese. Gli ebrei già all'inizio del Novecento volevano creare uno Stato ebraico comprendente l'intera Palestina. Ben Gurion dichiarò il 13 maggio 1947, un anno prima della fondazione dello Stato d'Israele: "Noi vogliamo la terra d'Israele nella sua interezza.  Questa è stata la nostra intenzione fin dall'inizio". E pochi giorni dopo ribadì che "l'intenzione originaria che ha alimentato le speranze di generazioni di ebrei era quella di fondare uno Stato ebraico esteso a tutta la terra d'Israele". L'espulsione violenta dei residenti palestinesi era dunque già prevista da molti decenni. Il cinismo di Ben Gurion era così grande che egli poteva anche permettersi di dire tranquillamente la verità. Nel 1956, per esempio, disse a Nahum Goldmann, presidente del Congresso ebraico mondiale: "Se fossi un capo arabo non scenderei mai a patti con Israele. E' naturale: gli abbiamo rubato il paese. Certo, Dio l'ha promesso a noi. Ma a loro questo che cosa può importare? Il nostro Dio non è il loro. Noi veniamo da Israele, è vero, ma è una storia di duemila anni fa. A loro che cosa può interessare? Ci sono stati l'antisemitismo, Hitler, Auschwitz. Ma è colpa loro? Loro hanno visto una sola cosa: che siamo venuti qui e gli abbiamo rubato il paese. Perché mai dovrebbero accettarlo?". Eppure, nonostante la consapevolezza di aver rubato un paese, trionfa il mito di Israele come vittima. Niente di più falso. I leader israeliani e gli scrittori allineati promuovono accuratamente l'immagine di Israele come uno Stato debole e assediato, un David ebreo minacciato da vicino, ogni giorno, da un feroce Golia arabo. Ma l'immagine più vicina alla realtà è, se mai, quella inversa. Israele è la prima potenza militare del Medio Oriente, di gran lunga più forte di tutti i suoi nemici messi insieme, ed è il solo Stato della regione a possedere armi nucleari. L'immagine di Israele come vittima è molto utile perché consente di screditare sul piano politico e intellettuale, bollandolo come vile antisemita (accusa che in America può stroncare una carriera), chiunque, persino Amnesty International, osi criticare l'azione dei governi sionisti. L' altro mito diffuso sia in America che in Europa è che gli ebrei abbiano semplicemente ripreso possesso in Palestina di ciò che Dio diede loro, e che quindi appoggiare Israele risponde alla volontà di Dio. Ma queste sono idee religiose che non dovrebbero influenzare la politica estera di un paese. Tra l'altro, dare manforte al potente Stato d'Israele nelle sue prevaricazioni ai danni dei palestinesi, privati della loro terra e dei loro diritti, è un'interpretazione piuttosto curiosa dell'etica cristiana.








 

 

 

 

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