domenica 16 maggio 2021

Maxime Rodinson: Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia. Giulio Einaudi editore, 1969.

 


 

In questi giorni di avvenimenti sanguinosi in Medio Oriente, per trovare la forza di resistere alle bugie della maggior parte dei politici e dei giornalisti, all’indifferenza per le vittime e alla solidarietà con gli aggressori, ho ripreso in mano qualche libro che avevo accantonato in passato senza leggerlo. Questo breve saggio dello storico e islamista francese Maxime Rodinson (1915-2004), scritto nel 1967, subito dopo la guerra dei sei giorni (5-10 giugno), è un utile manualetto. Ha il pregio di essere piuttosto particolareggiato per gli episodi degli anni più recenti (rispetto al 1967, naturalmente) e soprattutto di svolgere nella parte conclusiva delle considerazioni semplici e di buon senso che sono ancora oggi illuminanti, perché, osservava già allora Rodinson, raramente l’opinione pubblica è stata così disinformata. La causa profonda del conflitto, continua l’Autore, è l’insediamento di una nuova popolazione su un territorio già occupato, insediamento non accettato dall’antica popolazione del luogo. La nuova popolazione che occupa la Palestina nel XX secolo è del tutto eterogenea rispetto all’antica. E’ vero che essa sosteneva di avere abitato il territorio palestinese nell’antichità e di avervi costituito uno stato, del quale era stato privato con la forza. Ma se è incontestabile che nell’antichità gli ebrei formavano un popolo, è altrettanto evidente che in epoca moderna non lo erano più, ma formavano solo gruppi di persone unite da una religione comune o dal ricordo di una comune ascendenza. Faccio un esempio che non è nel testo: i cattolici francesi non formano un popolo con i cattolici polacchi, e ambedue queste comunità sono molto eterogenee rispetto ai cattolici di altri continenti. Si trattava, dunque, continua Rodinson, di un nuovo popolamento, di una popolazione eterogenea. Non solo erano stranieri rispetto ai residenti arabi, ma erano europei, ossia provenivano da un mondo caratterizzato come il mondo dei colonizzatori, dei dominatori grazie alla loro potenza tecnica e militare e alla loro ricchezza. Potevano anche essere i più svantaggiati di quel mondo, ma vi appartenevano. Dunque, una popolazione eterogenea si impose a un popolo indigeno. Qualcuno afferma che, poiché gli arabi hanno conquistato militarmente il paese nel secolo VII, andrebbero considerati occupanti stranieri come i romani, i crociati o i turchi, e che perciò non sarebbero affatto degli indigeni residenti. La risposta è che la popolazione palestinese sotto dominio arabo si arabizzò molto rapidamente. Anche l’Inghilterra fu conquistata nei secoli V e VI da angli e sassoni, che sottomisero le popolazioni di lingua celtica, ma nessuno oggi può proporre di trattare i popoli che hanno conservato le lingue celtiche (irlandesi e gallesi) come i veri indigeni del Kent e del Suffolk, e affermare che essi hanno su questi territori diritti superiori a quelli degli inglesi che abitano quelle regioni. I palestinesi volevano conservare la loro identità di arabi e vivere in uno stato arabo. Oggi la coscienza mondiale tende a dare ragione ai popoli che difendono la loro identità. Ai palestinesi sembra una flagrante ingiustizia che si possa fare eccezione a loro danno, soltanto perché i loro colonizzatori sono ebrei. D’altronde i palestinesi non si erano opposti all’insediamento di ebrei prima che l’immigrazione assumesse decisamente carattere sionistico, con lo scopo dichiarato di creare uno stato ebraico. Gli indigeni non hanno dunque rifiutato gli stranieri in quanto tali, ma hanno rifiutato l’insediamento di una collettività di carattere statuale straniera. Il conflitto ci appare così come la lotta di una popolazione indigena contro l’occupazione da parte di stranieri del suo territorio nazionale. Le aspirazioni religiose e spirituali delle comunità ebraiche non incidono sulla natura del conflitto. Quando un popolo subisce una conquista straniera, la ferita morale che prova non è minimamente lenita dalle tendenze spirituali coltivate dai conquistatori, né dalle motivazioni religiose che essi possono dare della conquista. Lo stesso vale per le sofferenze patite dagli ebrei. Queste possono forse giustificare la loro aspirazione a formare uno stato indipendente, ma è comprensibile che gli arabi non possano accettare che questa aspirazione si realizzi a spese loro. Se gli europei provano un sentimento di colpa nei confronti degli ebrei, siano loro a concedere a questi un loro territorio; non possono pretendere che lo diano gli arabi, diventando così gli unici riparatori dei torti altrui. Gli arabi di Palestina, non si stanca di ripetere Rodinson, avevano sulla terra palestinese diritti di eguale natura a quelli che si riconoscono ai francesi sulla terra di Francia o agli italiani su quella d’Italia. L’autore osserva che la creazione di uno stato ebraico di natura religiosa ha avuto, come conseguenza grave e profonda, quella di diffondere una ideologia comune che sembra poco coerente, ma è un miscuglio forte e ben radicato negli spiriti di religione e di nazionalismo di tendenza razzistica. L’antico popolo di Israele aveva avuto la gloria di formare nel suo seno, al tempo dei profeti, una delle primissime ideologie universalistiche mondiali. Aveva così superato la vecchia religione etnica del dio nazionale Jahweh (Geova), in lotta contro gli dei degli altri popoli. Questa ideologia rispondeva così bene alle esigenze dell’umanità che, nelle sue forme ‘eretiche’ (cristianesimo e Islam), era riuscita a conquistarne una grande parte. Ora questa apertura universalistica è praticamente abbandonata. Dio è soltanto con il suo popolo ebraico, nelle sue fatiche e nelle sue battaglie. Un’altra osservazione importante di Rodinson è che i politici israeliani che sostenevano posizioni di riconciliazione coi palestinesi sono stati sempre battuti. Israele non poteva (non può) far tornare un certo numero di profughi arabi sul suo territorio, né abbandonare alcune conquiste, né rispettare le decisioni dell’Onu, ecc. L’evoluzione ‘normale’ delle cose si sarebbe rivelata (si rivelerebbe) fatale per il sionismo, e lo stato, per lo stesso sviluppo della sua popolazione multietnica, sarebbe diventato uno stato levantino. La fine del pericolo esterno avrebbe comportato una crisi dello spirito pionieristico. Israele non doveva diventare un paese come gli altri. Le grandi potenze avrebbero finito col trascurare questo paese imbarazzante. Invece l’atmosfera bellicosa, il pericolo sempre minaccioso salvava l’Israele sionista: il mondo non poteva lasciarlo distruggere, gli ebrei di tutti i paesi si sarebbero mobilitati per salvare i loro fratelli. Sono passati più di cinquant’anni da queste parole, ma la situazione appare sempre ferma allo stesso punto. Sembra anzi peggiorata perché la vastissima solidarietà e simpatia che tutto il mondo aveva per i palestinesi sono oggi ridotte a gruppi sparuti. Il giornalista Paolo Guzzanti, interrogato in televisione sugli scontri in corso, ha potuto rispondere: “Ci siamo stufati!”.  La storia è crudele e nessun indizio lascia credere che la sua sete di sangue si appaghi presto. Tuttavia, conclude Rodinson, anche se le prospettive di domani non sono ottimistiche, non siamo dispensati dal lottare contro l’ingiustizia di oggi.

 

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