Il libro contiene cinquecentodue lettere, corredate di note esaustive, che riempiono ben 1113 pagine. Considerando che ogni lettera per almeno un terzo della sua lunghezza è uguale a tutte le altre, direi che tanta completezza filologica è esagerata e forse inutile. Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato una scelta di lettere di sole 272 pagine, che sono più che sufficienti a dare una rappresentazione adeguata della personalità di Foa, del suo tempo e dei suoi otto lunghi anni di carcere. Nel corso della lettura, fermo restando il rispetto per un uomo capace di sopportare il carcere per un ideale di democrazia, ho provato in modo alterno simpatia e fastidio per la personalità di Foa, ed è con una certa perplessità che azzardo un giudizio sintetico conclusivo. La prima cosa che colpisce di questa compatta montagna di lettere è lo stile leggero, umoristico, scherzoso e la costante rassicurazione rivolta ai genitori sulla propria eccellente condizione morale. Non c’è alcuna forzatura o esagerazione nelle parole tranquillizzanti di Foa; egli ha un carattere spontaneo e uno spirito faceto e gli piace giocare con le parole. In carcere, scrive, la lettura è una meravigliosa occupazione, un vero godimento, poiché ci si dimentica di essere fra quattro mura; si sente talmente a casa che le prime sere fa il gesto di mettere le scarpe fuori della porta per ritrovarle lucidate al mattino. Non è detto, scrive, che la mia vita sia più monotona di quella di un impiegato. E Foa è sempre così: scherzoso e imperturbabile fin quasi alla fine della sua detenzione. Solo dopo il luglio del 1943 e la caduta di Mussolini, quando sente che la liberazione dei prigionieri antifascisti è vicina e la situazione politica incerta e ribollente, le sue parole diventano più pesanti e i giudizi più aspri. Fra le infinite battute scherzose (“Se andate al mare fatevi una scorpacciata di orizzonte anche per me; qui di orizzonte neanche la traccia”), o anche intrecciate con esse, non mancano belle osservazioni psicologiche. “Al pomeriggio ho ottenuto di passare due o tre ore in compagnia con altri detenuti, così chiacchierando il tempo passa più in fretta e siccome io gesticolo parlando - da buon giudeo – ciò mi serve anche come esercizio ginnastico. Dei dannosi effetti dell’isolamento non ci si accorge finché si sta soli; appena rimessi in compagnia ci si accorge di non sapere più parlare e si diventa ad un tempo timidi ed aspri”. Continuamente si rammarica di non avere cose da raccontare, e con profonda arguzia scrive: “Mi abbandono liberamente a questo assoluto non aver nulla da dire che poi viceversa tante volte risulta un ottimo incentivo per scrivere delle belle lettere”. Assieme all’umorismo e alla perenne voglia di scherzare, Foa non perde mai la consapevolezza di sé e l’austera forza morale che lo anima. Non abbattetevi, scrive ai genitori, “voi sapete ormai benissimo come io la pensi del mio processo e quanto poca importanza io annetta alla libertà materiale quando non sia accompagnata dalla dirittura morale e dalla libertà dello spirito”. E ancora: “così come mi avete visto al colloquio, tale io sono tuttora e spero di essere per lungo tempo ancora, nella letizia, quasi nell’entusiasmo, che deriva dalla coscienza del dovere compiuto”. In un’altra lettera scrive: “Sopporterò volentieri qualsiasi malanno piuttosto che subire in silenzio una ingiustizia”. Naturalmente ha dei momenti in cui sente la mancanza di cose essenziali e la nostalgia dei luoghi in cui è vissuto. “Quanto tempo è che non vedo bambini! Quando li si vede regolarmente non ci se ne accorge neppure, ma a pensarci bene sono un grazioso ornamento della vita”. E ancora: “Se sapeste quanta nostalgia mi prende alle volte per un po’ di musica”. Quando è ispirato dai ricordi, Foa scrive le pagine migliori e la sua prosa diventa lirica. Per esempio, queste righe su Torino: “Come sembrano vicine le Alpi, quando ci si innalza un poco sulla collina torinese, e la città assume un aspetto un po’ svizzero e protestante perfettamente in carattere colla sua silenziosa operosità. È facile amare Torino in continuità, come in un matrimonio riuscito, appunto perché è una città poco sentimentale sotto tutti gli aspetti, e non sazia”. E quando, dopo sei anni di carcere, riflette che tutto è mutato del suo vecchio mondo, scrive questo struggente appello ai genitori: “L’unico punto fermo in tutto questo flusso eracliteo siete ancora voi due, la vita consueta nei luoghi consueti, via Legnano, Cordova, Moncalvo, Diano, le vecchie zie, Giacolino; credete veramente che nelle vostre lettere amerei leggere qualche cosa di nuovo? Sarebbe un desiderio stolto del quale non tarderei a pentirmi; le vostre lettere sono, come le mie, le une uguali alle altre, ma questo è veramente il mio desiderio quando arriva la posta, di leggervi come sempre, colle stesse vaghe speranze, colle stesse memorie care. Questa vostra immobilità di vita e di affetti costituisce il polo della mia nostalgia”. I ricordi scattano anche quando commenta il contenuto di uno dei pacchi che i genitori gli inviano regolarmente: “I cachi sono eccellenti e così pure tutto il resto, soprattutto la salsa di peperoni che mi ricorda al sapore i lontani pomeriggi della val Ferret, al plan Pincieux cogli occhi abbagliati dal riverbero del sole pomeridiano sulla seraccata [blocchi di ghiaccio] della Brenva, e le risate e i giochi infantili e tutto il resto”. Perché il giudizio sulla prosa di Foa sia completo, non si possono dimenticare i ritratti ironici e affettuosi dei suoi compagni di galera (Mila, Rossi, Cavallera, Perelli), o quelli profondi e dolenti di amici e parenti morti durante la sua detenzione. Su Foa come studioso e uomo di cultura sono molto dubbioso. Certo il suo impegno nello studio era grandissimo e i suoi interessi molto vasti: diritto, storia, economia, matematica, statistica, religione, astronomia, letteratura, lingue straniere; confesso però che le sue riflessioni sui libri che leggeva (a parte quelle su opere letterarie) mi sembrano scritte in una prosa opaca e poco comprensibile. E dove mi è parso di aver capito qualcosa, come nel giudizio entusiastico su Cavour, non sono stato d’accordo. Ma l’abbaglio più grave che Foa ha preso è nel valutare il libro di Johan Huizinga “La crisi della civiltà”, ed è un abbaglio gigantesco che rende quasi inutile tutta la sua cultura e, credo, decorativa la sua attività politica del dopoguerra. La critica profetica di Huizinga al progresso tecnico, alla pubblicità, alla radio, al cinema (oggi si può pensare alla televisione e a internet) e in generale alla "moderna barbarie" viene ridicolizzata da Foa, che assieme ai suoi compagni definisce stupidaggini, anzi “huizingherie”, le amare sentenze del grande storico olandese. Delle quali ricordo quella sull’arte contemporanea: “una ridda burlesca di eccessi lanciati dalla moda e ingrossati dalla pubblicità”; e quella sulla cultura in generale, mossa da “un vano e inquieto brancicare verso tutto ciò che è nuovo, disprezzando tutto ciò che è vecchio”. L’ottimismo naturale di Foa, diventato poi una corazza ideologica, lo ha reso ottuso e superficiale.
Nessun commento:
Posta un commento