Massimo Mila, quando fu arrestato per attività antifascista non ancora venticinquenne, era già, intellettualmente e moralmente, un uomo fatto e completo, con delle idee ben sviluppate e delle convinzioni profonde. Se ripenso ai miei 25 anni, così pieni di incertezza e di dubbi, la fermezza severa e quasi austera di Mila mi sembra straordinaria. I suoi affetti sono profondi e solidissimi: per la mamma, per la fidanzata Francesca, la nonna, gli zii, il padre separato, il nuovo compagno della madre, gli amici, i colleghi di lavoro, i compagni di escursioni in montagna, i conoscenti e perfino i bottegai del quartiere. In ogni lettera Mila ha per ciascuno di loro una parola di simpatia e di saluto. Ma non cede mai al sentimentalismo e, da piemontese pignolo quale si vanta di essere, non rinuncia mai a criticare, anche in modo aspro, idee e atteggiamenti che non gli piacciono. Con la madre, che gli scrive quasi una lettera al giorno, lo rifornisce di cibarie, abbigliamento e denaro, Mila ha un rapporto intensissimo di affetto e di riconoscenza, però non esita a usare parole addirittura offensive (“atteggiamenti da sartina nevrastenica”) per convincerla a non disperarsi per lui e a sopportare con animo rassegnato la sua carcerazione. “Sappi essere forte e fiera, come occorre essere in questo caso [...] Se ogni tanto vacilli, rileggiti qualche passo di Dante, di Foscolo, d’Alfieri; ripensa ai tanti grandi spiriti che in tutti i secoli hanno edificato dal fondo delle prigioni la grandezza d’Italia, e cerca di creare in te e di instillare in Francesca il senso della continuità storica di questa grande tradizione”. In un altro contesto, sembrerebbero parole ampollose, ma qui, scritte da un giovane che affronta il carcere per le proprie idee, sono parole (se posso esprimermi così) scritte col sangue. Mila ha naturalmente una grande consapevolezza di sé, ma unita a ironia e modestia. E consapevolezza, qui, non vuol dire superbia, ma coscienza di aver scelto il mondo dei valori morali e della libertà. “Resta inteso che io sono un martire della libertà di pensiero, una vittima, l’erede di Giordano Bruno e di Giannone [...] Non sono le settennali catene che mi si gettano addosso [cioè i sette anni di carcere a cui era stato condannato], quelle che incateneranno la libertà del mio pensiero: nè riusciranno ad alterare la serenità perfetta del mio spirito. Io vivo molto al di sopra di queste piccolezze”. Non solo per rassicurare la mamma e i parenti, ma quasi con vera convinzione scrive ironicamente: “La mia vita qui non è affatto anormale: se non mi mancaste voi e la montagna, direi che è la miglior vita che posso desiderare: niente da fare, leggere, studiare, pensare. Il lavoro, lo sai benissimo, non ha mai avuto le mie simpatie”. Gli anni di carcere di Mila trascorsero, sotto il regime fascista, tutti prima della guerra e della Resistenza, prima dei grandi rivolgimenti politici, sociali e di costume della seconda metà del Novecento, eppure la sua prosa, concreta e aperta, potrebbe, per lessico, sintassi e forma della sua vivacità, essere stata scritta oggi. Non c’è in essa nessuna influenza né di dannunzianesimo (benché egli ammiri la scrittura di D’Annunzio) né di psicologismo né di ermetismo... E’ una prosa forte e chiara che potrebbe costituire il merito di uno scrittore attuale. Invece il tono di queste lettere e il tipo di rapporti che disegnano corrispondono a una retorica o meglio a una forma di cortesia e di razionalità che sembra antica e oggi impensabile. La fermezza e insieme l’affabilità intellettuale di Mila sono nel nostro tempo in assoluto declino. Rivolto alla madre, dice: “Non hai da temere, come scrivi, di vedermi mai soffrire per ‘non essere compreso’, perché io questo vostro misterioso bisogno di essere compreso, non ce l’ho. Mi capisco io e basta”. In una lettera successiva scrive: “Pigliatemi come sono, cioè assolutamente incapace di pronunciare o scrivere quattro parole quando non ho niente da dire”. E con divertente umorismo spiega: “Tutti i miei maestri d’italiano (te compresa) dalle elementari fino al ginnasio superiore hanno sempre sentenziato che scrivevo correttamente ma ero ‘povero d’idee’: volevano dire con questo che non ero capace a menare il can per l’aia a proposito di cose che non mi stessero a cuore, non sapevo scrivere lettere a un amico Pierino per comunicargli che mi era nata una sorellina e non m’importava un fico secco di quel che accade quando ritorna la primavera”. Mila ha curiosità e interessi vastissimi e le sue lettere parlano continuamente di libri. La sua grande tempra di studioso ha avuto anche l’effetto, secondario ma non trascurabile, di darmi una scossa, facendomi rimpiangere il tempo dissipato. Anche qui la sua modestia e il suo umorismo sono un conforto e un incoraggiamento. Scrive alla madre che da qualche mese si è messo a studiare Hegel, “ma è maledettamente difficile e oscuro”. E aggiunge: “Devi sapere che quasi cent’anni fa, nelle prigioni napoletane dov’era stato rinchiuso dopo il ’48, Silvio Spaventa, che pure era una bella testa di politico e di pensatore, s’era messo a leggere, dello Hegel, la Fenomenologia dello spirito, e scriveva al fratello, che era filosofo di mestiere, che spesso gli capitava di mettersi a piangere per la disperazione di non poterci capir niente”. La mamma di Mila temette che lo studio di Hegel potesse danneggiare la salute del figlio, ma lui la rassicurò: lui non si era mai messo a piangere non perché comprendesse l’opera di Hegel meglio di Silvio Spaventa, ma solo perché la cosa non gli stava poi tanto a cuore: come aveva scritto un poeta latino, lui aveva, sì, bisogno di filosofare, ma poco, perché la filosofia va solo assaggiata, senza tuffarcisi dentro.
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