Questo romanzo corale di oltre mille pagine è diviso in
quattro parti intitolate alle stagioni dell’anno. E’ un romanzo pressoché
sconosciuto e credo che in Italia abbia avuto la sola traduzione della torinese
Aurora Beniamino, pubblicata nel 1932 dalla Novissima Editrice e ripubblicata
nel 1979 dalla Utet.
L’edizione del 1932 è stata stampata a Firenze,
quasi per intero in una tipografia di via dei Macci, e chi conosce quella
stradina dietro la chiesa di Santa Croce non può non essere meravigliato e,
direi, lusingato del fatto che a Firenze e proprio in un vicoletto abbia preso
vita un’opera così monumentale. E’ vero che ogni pagina di quell’edizione
pullula di refusi e di errori (il più simpatico: l’aggiù), ma ciononostante la
traduzione della Beniamino, assecondando lo spirito del romanzo, ha la forza e
l’efficacia di un grande e impetuoso fiume.
Penso che quest’opera abbia soltanto delle
somiglianze esteriori con le opere più famose del realismo e del verismo europeo, che
sono crude, cupe e del tutto disincantate. Qui prevale invece un realismo
lirico e religioso che vede l’uomo, gli animali, la terra, le piante e il
cielo partecipi di una vita comune. Le descrizioni di paesaggio e dei
fenomeni della natura (temporali, nevicate, calure estive, venti impetuosi, fioritura di
piante, rigoglio di campi coltivati) sono numerose, lunghe e dettagliate e occupano, credo, un terzo o un quarto del romanzo: non sono intermezzi decorativi, ma
sono intrecciate in modo concreto con i lavori, con la vita quotidiana e
persino con gli stati d’animo dei contadini del villaggio. Il
villaggio è qui un mondo intero, la patria della comunità e l’unico palcoscenico di ogni singolo
abitante. Chi si allontana dal villaggio, sparisce dalla scena del romanzo; di
lui al massimo arrivano notizie lontane, vaghe e tardive. Questo mondo, però, solo nella rappresentazione poetica è circoscritto;
sul piano umano e, direi, storico e sociale, non è per niente chiuso né insensibile. Anzi i contadini, benché ingenui analfabeti e rozzi,
hanno una profonda avversione contro i grandi proprietari, i burocrati ridicoli
e corrotti e contro il governo dello zar, che amministrava allora la Polonia. L’ispirazione
religiosa e fondamentalmente ottimistica di Reymont non gli impedisce di
descrivere con acutezza (e qualche volta con umorismo) la meschinità, l’avidità
e l’ipocrisia di singoli contadini, del sindaco, del curato e dei loro sostenitori. Ma poi tutti gli errori e le violenze si ricompongono (o si dimenticano) nel flusso sempre rinnovato
delle energie vitali che il cielo, la terra, il lavoro dei campi alimentano. La vita quotidiana del villaggio, nonostante la povertà e le tante miserie, ha quasi sempre un tono gaio e vivace. La grande freschezza e naturalezza dei dialoghi fa pensare a Cechov ed è segno di grande talento artistico e di profonda comprensione umana. Ma Reymont sa descrivere con drammaticità avvincente anche molte scene di massa.


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