venerdì 22 giugno 2018

Orazio Licandro, "La lunga lezione dei classici sull'accoglienza". Ma Giacomo Leopardi lo smentisce.


Fino a lunedì scorso Orazio Licandro, nella sua rubrica ‘Scripta manent’, si era limitato a sottolineare, mi pare con sobrietà e con arguzia, analogie fra vicende e personaggi dell’antichità e avvenimenti del mondo di oggi. Sul Fatto di lunedì 18, invece, del tutto inaspettatamente, Licandro intona una predica da altar maggiore sugli insegnamenti che l’umanesimo greco-romano ci darebbe riguardo all’accoglienza e all’ospitalità, e critica con virulenza le posizioni anti-migranti del ministro Matteo Salvini. A me sembra che rubricare un problema drammatico che coinvolge più continenti e milioni di persone sotto la voce ‘accoglienza e ospitalità’, come se si trattasse di dare alloggio per qualche notte a un gruppo di pellegrini in cerca di un riparo dalla pioggia e dal freddo, sia una troppo facile semplificazione. Mi sembra dissennato pretendere che delle virtù private diventino leggi dello Stato: i Romani non ci hanno affatto insegnato questo. E’ dunque solo grazie a questa estrema e scorretta semplificazione,  che Licandro può fare delle citazioni che, a mio parere, non sono per niente calzanti.
Dall’Odissea cita come esempi di ospitalità gli episodi di Nausicaa e di Circe, ma dimentica opportunamente i Proci, che, ospiti permanenti nel palazzo di Ulisse, vogliono impadronirsi del suo regno e di sua moglie, e Ulisse, al suo ritorno in patria, può liberarsi di loro solo uccidendoli. Le citazioni di Licandro, nel contesto del suo fervorino, avrebbero un senso se il problema dei migranti potesse essere risolto unicamente con un sentimento di carità, solidarietà e accoglienza, come lui, ingenuamente o furbescamente, mostra di credere. Io sono del parere che Licandro faccia il furbo, perché, per esaltare il ruolo del sentimento, cita anche San Paolo, ma in modo intenzionalmente incompleto. In realtà persino San Paolo nella Lettera agli Ebrei è ben più politico di lui. Licandro si limita a citare la frase: “Si conservi fra di voi la carità fraterna; e non trascurate l’ospitalità”, però omette la frase immediatamente successiva: “Ricordatevi di coloro che sono in catene, come se foste incatenati anche voi con loro”. Questo è ben più che un invito alla carità: è un invito a spezzare le catene, dunque ad agire contro i governi che portano la guerra e lo sfruttamento in paesi di cui mettono i popoli in catene.    
Al sedicente esperto di storia antica vorrei ricordare le riflessioni che Giacomo Leopardi, che fu anche un grande e profetico pensatore politico, fa nello Zibaldone quasi ad ogni pagina, quando, lodando le virtù dei Greci e dei Romani, parla del loro amor di patria. 
"Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama... Ma quest'odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perché l'individuo non fa parte della nazione se non materialmente. L'opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt'uno con la patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno. Con queste osservazioni, spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata con la maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l'opinione, l'amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l'odio nazionale e individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione dello stato, della indipendenza e della grandezza della patria" (30 Marzo - 4 Aprile 1821).
Nella stessa lunghissima riflessione, Leopardi porta un colpo così preciso alla retorica dei sentimenti, che sembra misurato sulle scempiaggini di Licandro. Commentando un passo del filosofo greco Temistio (ca. 317-ca. 388),  Leopardi scrive: 
"E infatti la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo nè de' grandi uomini, e non si nominò se non dopo che, parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l'amor di patria, e sottentrato il sogno dell'amore universale (ch'è la teoria del non far bene a nessuno), l'uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni". 


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