domenica 29 gennaio 2012

Carlo Grabher, "Anton Cechov". Roma, Istituto per l'Europa orientale - Torino, Slavia, 1929. 1^ parte.

Quand’ero ragazzo, circolava a casa mia una Divina Commedia commentata da Carlo Grabher, che io non ho mai degnata d’attenzione. Chi era costui? Un perfetto sconosciuto. Gli avevo preferito il commento eruditissimo di Natalino Sapegno. Oggi scopro per caso, frugando tra i libri di Giuseppe Ferrini (V. il post precedente), che Carlo Grabher, nato a Terni nel 1897 e morto a Firenze nel 1968, aveva pubblicato, a soli 32 anni, un saggio su Anton Cechov, del quale aveva tradotto il teatro. Il libro di Grabher (mai più ristampato!), nelle sue 117 paginette, è denso, chiaro, penetrante e profondo. Che meraviglia! E che dispiacere non aver più sotto mano il suo commento alla Divina Commedia! E che gratitudine per uno studioso così modesto e semplice e così dotato, e capace di così grande lavoro e di fare analisi letterarie tanto acute e umane! (V. la nota alla fine della terza puntata). Il dramma di Cechov, quale appare in tutta la sua opera narrativa e teatrale, non è quello che si risolve con un colpo di rivoltella; esso è il dramma del dolore che non conosce violenze di ribellione, del dolore che si raccoglie nel cuore; è il dramma di chi, partito dalle terre radiose del sogno, da una vita che fu bella e forte, ha fatto poi naufragio nella dura realtà, nel pantano dell’esistenza mediocre di ogni giorno, senza più possibilità d’approdo (p. 34). Dopo i racconti del primo periodo, in cui prevalgono motivi o elementi comici, lo sfondo e la sostanza della maggior parte delle opere di Cechov sono costituite da questa mediocrità di una vita senza certezze e senza vere illusioni, da questo male di non saper più come e perché si viva, questo doloroso ripiegamento in se stessi (p. 34). Tutti gli eroi cechoviani s’arrestano di fronte a qualche barriera che, anche se temporanea e insignificante, diventa insormontabile, perché l’ostacolo è dentro di loro (p. 35). La forza delle cose: ecco ciò contro cui va a cozzare e ad infrangersi ogni sforzo di liberazione nel mondo di Cechov. Nulla per lui trascende questo cieco caos della vita, su cui non si può ripetere che un perché, senza risposta; nulla assolutamente: né lo spirito umano come centro e creatore di tutto, né un Dio, come principio e fine di tutti gli esseri (p. 37). Fra i personaggi di Cechov, gli uomini che si chiudono nella loro egoistica vita, inerte e senza ideali (L’uomo nell’astuccio), e gli altri, come Lopachin del ‘Giardino dei ciliegi’, dominati dalla febbre di azione, che cercano solo di fare buoni affari e buoni guadagni, possiamo definirli ‘uomini meccanici’ (p. 47). Ma non sono questi i veri eroi di Cechov. I personaggi che Cechov ama, al contrario degli uomini meccanici, soffrono di non sapere per quale scopo vivano; e la loro volontà, sebbene si spezzi dinanzi all’azione e si ripieghi vinta, non rinuncia, almeno, a una aspirazione iniziale. Essi vorrebbero sapere, vorrebbero agire, vivere; e questo slancio impotente costituisce il vero principio dinamico del loro dramma. I veri eroi cechoviani non amano la loro vita, perché non sanno viverla, ma amerebberro ‘la vita’ e la rimpiangono. E se la ragione afferma inesorabilmente che non c’è nessuno scopo ultimo da conoscere, se la volontà si piega vinta, perché nulla può fare, il sentimento si ribella e fa soffrire il cuore. Questi eroi di Cechov, che sono l’opposto dei suoi uomini meccanici, cercano ansiosamente una via di liberazione, sebbene consci di seguire una chimera, sebbene consci di ingannare se stessi (p. 48). Dal contrasto fra un intelletto che nega e un sentimento che, tuttavia, ha slanci di ribellione, nasce il bisogno di quella fugace liberazione che, con una parola dello stesso Cechov, Grabher chiama ‘i miraggi’. Zio Vanja, questo tipo di vinto, dice: “Quando manca una vera vita, allora si vive di miraggi. Del resto: meglio che niente” (p. 49). Tra i vari miraggi (l’ebbrezza della vodka, il fervore del lavoro nella vita pratica, l’amore, ecc.), ce n’è uno che sembrerebbe avere una maggiore consistenza: l’ideale progressista. Anche in Cechov, che non poteva sottrarsi a certe influenze del suo tempo, torna con grande insistenza l’idea del progresso umano, di quella evoluzione che si sarebbe compiuta, non importa quando e come: forse ‘fra due o trecento anni’, come dice Veršenin in Tre sorelle (p. 51). Possiamo anche ammettere che Cechov, specialmente nella sua giovinezza, credesse sinceramente in un immancabile progresso dell’umanità, ma nel suo mondo artistico (che è quello che interessa) l’invocazione di questa felicità futura diventa come un monotono e triste ritornello che echeggia come certe musiche dell’infanzia, che, entrate nell’orecchio e nel cuore, ci sono troppo care per poterle dimenticare. Questo ideale progressista, in cui, a poco a poco, la ragione si sforza soltanto di credere, ritorna come un’idea fissa, ma astratta, lontana e contraddittoria con la vita che in nulla è mutata, che in nulla muterà, come ben comprende Tusenbach, che in Tre sorelle afferma: “Non solo fra due o trecent’anni, ma anche fra un milione di anni, la vita sarà come prima, immutabile, obbediente alle sue leggi che sono estranee a noi, o che, per lo meno, non si conoscono” (pp. 52-53). La certezza che la vita non cambierà nella sua dolorosa sostanza distrugge il valore positivo di questa fede progressista, che non spezza dunque il cerchio ferreo del pessimismo cechoviano. Essa ritorna come una vana e nostalgica invocazione, che i vinti, non già cristianamente rassegnati, ma piegati da una dolorosa e forzata accettazione, ripetono a se stessi come per sopire la propria sofferenza (pp. 53-54). Credere, ecco l’essenziale; ecco ciò che potrebbe salvare dall’oscuro gorgo della vita. E, purché ci sia, Cechov ammira le fede (p. 58). L’eroe cechoviano non sa, non crede, né ha la forza e la gioia di lottare per liberarsi dal cerchio che lo stringe, ma il non sapere, il non credere sono una sofferenza; e questa sofferenza è già una feconda forza interiore, che, se non riesce a conquistare la verità salvatrice, se deve rassegnarsi a una dura lotta senza vittorie, senza nemmeno qualche illusione sinceramente creduta, illumina già di una sua luce quel mondo di tenebre (pp. 57-58). (continua al post successivo)

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