mercoledì 24 aprile 2024

Carlo Levi (1902-1975). L'Orologio. Einaudi, 1974

Questo secondo romanzo di Levi è molto diverso dal “Cristo si è fermato a Eboli”, eppure non lo contraddice, anzi mi pare che sia la sua continuazione e il suo sviluppo. Anche qui l’ispirazione dello scrittore nasce da un atteggiamento particolarissimo: una profonda serenità d’animo, una curiosità viva per tutti gli aspetti della vita e del mondo, una tempra morale che non ha niente di ideologico e di politico in senso stretto, niente di artificioso, ma è una espressione immediata e spontanea di sensibilità fisica e nervosa e di sentimenti educati dal gusto estetico e da una libera cultura. La chiave per la comprensione del romanzo si trova a metà del libro. Una sera, all’ora del tramonto, pochi mesi dopo la fine della guerra, Carlo Levi passeggia per le strade di Roma, osservando le strade strette, le piccole piazze, i vicoli, le botteghe, i palazzi, “le finestre abitate da figure silenziose, e il passaggio continuo della gente, dei loro visi brillanti nella penombra, dei loro occhi neri, fra l’onda delle voci, dei sussurri, dei richiami”. Levi cammina per Roma “come sospinto e accarezzato da quella vita luminosa che pareva legare gli uomini e le case, che avvolgeva le persone e i palazzi, entrava per le porte aperte nelle botteghe, seguiva le donne su per le scale, e si inarcava sulle nostre teste, nel cielo popolato di uccelli”. Arriva in una piazza dove era montato un piccolo teatrino di marionette che dava spettacolo davanti a una folla. “Uomini, donne, vecchi, bambini, operai in abito da lavoro, venditrici di sigarette, raccoglitori di mozziconi, mendicanti, giovanotti con i capelli lucidi, ragazze con le pelliccette corte, vecchie sdentate, soldati, impiegati, guardavano intenti; e tutti i visi erano aperti, senza segreti, abbandonati a un incanto felice. E anch’io, in mezzo a quel gruppo di uomini sconosciuti, mi sentivo invadere da un senso improvviso di gioia”. Levi conclude questa scena con alcune poetiche considerazioni di antica ed elementare saggezza, che io tralascio per brevità. I signori di quella critica letteraria che dettava legge nel dopoguerra non potevano apprezzare un atteggiamento segnato, a parer loro, da un dolciastro sentimentalismo piccolo-borghese, così lontano dalla metallica e meccanica coscienza di classe, e ne dettero giudizi molto limitativi. Un sentimento di virile umanità è dunque lo stato d’animo costante dello scrittore: curioso, aperto, fraterno, ma anche acuto e penetrante e, all’occasione, severo; questo è l’occhio con cui Levi osserva il mondo e racconta le vicende a cui assiste e quelle che rievoca, vissute a Firenze, Milano, Torino, in Francia. "L’Orologio" è una sorta di viaggio nell’Italia dell’immediato dopoguerra e fra gli italiani di tutte le condizioni, che si arrabattano per sopravvivere. Levi incontra decine di personaggi e li descrive puntigliosamente con una efficace esagerazione visionaria da romanzo sud-americano. Ogni tanto, in questa traversata, breve nel tempo oggettivo ma lunghissima nel tempo mentale, Levi intreccia alle vicende reali i propri ricordi d’infanzia; quindi non è solo un testimone, ma è anche un personaggio. "L’Orologio" non ha un vero centro, ma è un fluire continuo di situazioni, di figure e di luoghi, che potrebbe durare, invece che pochi giorni, parecchi mesi. La crisi del Gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, pur con il significato drammatico che gli viene attribuito, è solo l’episodio più importante di questo viaggio, ma non l’anima del romanzo. I critici che hanno considerato la descrizione di quella crisi politica come l’unico scopo del romanzo hanno operato una forzatura, che ne limita la comprensione e porta a sottovalutarne il valore. La conseguenza è stata questa: messo quel fatto politico al centro del libro, hanno trovato poi che l’attenzione datagli da Levi non era sufficiente. Walter Binni, per esempio, recensendo il romanzo nel 1951, scriveva che “più chiari devono essere i centri d’interesse del suo narrare”; e tutte le scene di genere in cui Levi si trova coinvolto (in pratica, almeno due terzi del romanzo) le considerava come decorative “tentazioni laterali” e puro “divertimento, leggermente snobistico e accademico insieme, di macchiette abilissime e svagate”. A Carlo Levi Binni chiedeva “meno cronaca e più storia, meno figure della realtà e più realtà trasfigurata”. Ma questo giudizio apodittico è solo un gioco di parole: nel romanzo la storia non manca e non mancano giudizi storici trasfigurati in situazioni concrete. Mario Alicata, critico letterario divenuto dirigente del vecchio PCI, pur riconoscendone la qualità artistica, rimproverava a Carlo Levi le sue spiegazioni metafisiche e non storicistiche della miseria contadina, e desiderava “vederlo schierato su posizioni più esatte e più utili alla causa del Mezzogiorno”. Questa volontà di controllo sugli intellettuali una volta si chiamava zdanovismo (dall’ideologo sovietico Andrej Ždanov): una parola che è diventata poi un insulto, anche se, sotto altre bandiere, oggi più che mai si pratica una identica ottusa censura. Di Luigi Russo ho riportato qualche giudizio nel mio commento a “Cristo si è fermato a Eboli”. Ma ora colpisce, al di là degli stili diversi, la sua consonanza con gli altri critici. “Difetta nell’autore una profonda fede politica... Un libro, questo, che fa esclamare che anche Carlo Levi si è fermato a Eboli, ed ha avuto paura di proseguire nel suo cammino ed è rimasto a gingillarsi con le sue donne e con le sue infinite virtù di pittore facile e felice”. Quanta supponenza nel grande critico siciliano! Quando descrive i politici, Levi fa dei ritratti non più visionari e barocchi, bensì asciutti e ironici. Il ministro Tempesti (che è il comunista Emilio Sereni), a Napoli, a una festa di partito, sorride bonario e autorevole, risponde agli applausi, distribuisce fraterne pacche sulle spalle, dà risposte precise e indiscutibili, “voltandosi e piroettando su se stesso senza fatica come una trottola, parlando senza noia, efficiente, popolare e meccanico”. Con Emilio Sereni e con il ministro Colombi (il democristiano Attilio Piccioni), Levi viaggia in auto da Napoli a Roma e ascolta la loro conversazione: “eterne formule, eterni discorsi”. La caduta del Gabinetto Parri non li preoccupava. I due ministri erano molto comprensivi l’uno verso l’altro. “Purché fosse continuata l’unità dei grandi partiti di massa, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi... Non c’era adesso che un problema: restaurare l’autorità dello Stato. Bisognava liberarsi di certi residui anacronistici della Resistenza”. A pochi mesi dalla fine della guerra, già si pensava a mettere la Resistenza in naftalina per gestire insieme il potere. Di questo dettaglio storico i critici summenzionati non si sono accorti. Un’altra pagina fondamentale di storia, degna di un grande scrittore russo, è il lungo discorso di Ferrari, letterato, ex partigiano, per necessità ora impiegato in un Ministero. “Un Ministero. Voi non sapete che cos’è un Ministero. Nessuno lo sa, se non ci sta dentro. Non è neanche immaginabile. E’ un mondo sconosciuto, sotterraneo e infernale. E’ la raccolta miracolosa di tutte le miserie, di tutti i vizi, di tutte le bassezze; una coltura pura di miserabilità... E’ una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia... La loro [degli impiegati e funzionari] sola attività è di impedire che qualcosa di nuovo avvenga... Ora c’è la crisi di governo: vedeste al Ministero, tutti quegli impiegati d’ordine di terza classe, quei minutanti, quegli applicati, come si fregano le mani, si strizzano l’occhio, si danno manate sulle spalle! Ciascuno di loro sente di avere, personalmente, contribuito, ora per ora, a rovesciare il governo, che aveva avuto il coraggio o il programma, o la pretesa o la speranza di cambiare qualcosa... Non riusciremo a salvare il governo della Resistenza...”. Ad ascoltare il discorso di dimissioni di Ferruccio Parri, al Viminale, sono presenti tutti i vecchi politici. “Dei vecchi, strani animali preistorici, stavano sdraiati con sussiego sui loro scranni, avvolti in una atmosfera di rispetto coagulato. Avevano saputo durare, indifferenti come pietre agli avvenimenti, o secondandoli appena, accennando col capo a muoversi con quelli, pur restando fermi; nascondendo i vecchi visi sotto le maschere barbute, aspettando in letargo ma pieni di ambizioni nascoste, la loro ora... Era un bel giorno, un giorno di vittoria, anche per loro. Il solo problema era quello di saper far durare ancora la propria lunga vita, di non morire, ora che ci sarebbe stato bisogno di loro, che ci si sarebbe rivolti alla loro supposta saggezza, frutto di così meravigliosamente lunga e ripetuta insipienza, per salvare il Paese e lo Stato...”. Io credo che solo qualche pagina di Pasolini abbia raggiunto il livello di questa grande prosa. I fatti concreti dunque non mancano nel romanzo di Levi, e i giudizi storici, lungi dall’essere espressi in forma di “discorsi raziocinanti, più cerebrali che appassionati” (come sosteneva Walter Binni), sono trasfigurati poeticamente in persone, corpi, atteggiamenti, scene di genere, interni di case, paesaggi, perché la poesia qui è dappertutto.

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