mercoledì 3 aprile 2024

Carlo Levi (1902-1975). Cristo si è fermato a Eboli. Einaudi, 2005

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Il Cristo di Carlo Levi a me sembra un libro solare, come può essere solare la descrizione di un paesaggio squallido o di una persona infelice fatta con la gioia di averne capito l’essenza e di essere riusciti a rappresentarla. Questa gioia estetica e morale, che deriva da una fondamentale serenità d’animo, non attenua minimamente la pena e la solidarietà che Levi sente per i contadini lucani, poveri denutriti e malati. Ma la pena e la solidarietà, di fronte a una così grande miseria, sono ancora – mi sembra – dei sentimenti facili e superficiali. La comprensione che  Levi ha di quei contadini passivi e sfruttati va ben oltre la pena. Egli scopre umanamente, cioè con il corpo e con i sentimenti, che quei contadini, che dai signori e dalle autorità del luogo “non erano considerati, veramente, degli uomini”, erano in tutto anch’essi degli esseri umani, e arriva a conoscere e apprezzare i loro valori, la loro intelligenza, la loro storia. “Il loro cuore è mite, e l’animo paziente”; e inoltre, non avendo i pregiudizi e la presunzione della mezza cultura, essi capiscono meglio e in modo più immediato  perfino le cose dell’arte. In Levi c’è, dunque, una luminosa serenità d’animo. In un punto del libro dice: “Mi pareva di essere entrato nel cuore del mondo”. E’ grazie a questa condizione spirituale che egli può assorbire, senza ignorarli, i drammi della vita quotidiana, interpretandoli alla luce di una cultura che va dalla Bibbia e da Montaigne fino ad una aggiornata analisi della piccola borghesia meridionale (“una classe degenerata, fisicamente e moralmente, che vive di piccole rapine”). Se non si tiene conto di questa speciale personalità, limpida e profonda, di Levi, sembra del tutto stravagante e incomprensibile lo stato d’animo che egli prova in casa di un moribondo, dove è venuto di notte per tentare di salvarlo. “La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché dunque una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove… Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza”. Sono sentimenti dannunziani, questi? A me non sembra. Eppure Luigi Russo, grande storico ma, secondo me, prigioniero di una cultura rigidamente ottocentesca, ha scritto sulla sua rivista “Belfagor” (1950) che in Levi c’è “l’interesse del decadente per la materia vergine e barbarica di certi paesi del Mezzogiorno, rivelatisi con stupore a un ingegno nordico che non sapeva nulla di quelle plaghe”; e il critico siciliano continua affermando che “quell’ingegno, pur uscito da una superiore civiltà, è portato perfino ad atteggiarsi come uno stregone, per aderire alla psiche di quei primitivi e a farsi loro provvisorio concittadino”. Senza far caso alla facile ironia (lo chiama anche “dilettante di genio” e “pittore facile e felice”), si potrebbero citare molti passi del Cristo per smentire questi giudizi di Russo. Ma preferisco correggere Russo usando le sue stesse parole. Mentre Carlo Levi, con tutto il suo presunto decadentismo e ignoranza dei problemi del Meridione, comprende  a fondo “l’avversità dei contadini per lo Stato, estraneo e nemico”, non si può dire la stessa cosa di Russo, quando parla dei contadini del Verga, che pure egli presume di comprendere. Il suo artificioso e freddo ottimismo risorgimentale gli fa scrivere nel saggio su Verga: “Gli scrittori provinciali [Verga, De Roberto, ecc.] scoprivano la loro più vera patria nella provincia [...] non già per reazione all’unitarismo politico trionfante, ma per la collaborazione più intima a quel movimento unitario, che non poteva e non doveva appagarsi di un livellamento giacobino delle varie regioni, ma che meglio si attuava là dove l’individualità delle regioni fosse più scoperta e consapevole”. Parole vacue e, direi, insensibili, che, proprio nel 1945, l’anno di pubblicazione del Cristo, furono contraddette, seppur in una forma prudente e generica, da un altro famoso storico della letteratura, Natalino Sapegno: “In Italia il verismo doveva proporsi come il frutto più maturo, in letteratura, del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle speranze vagheggiate, l’instabile equilibrio dell’unità raggiunta con mezzi in gran parte esterni, provvisori, effimeri; la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della libertà, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca…”. Quindi, non decadente ma autenticamente umanistica io definirei la cultura con la quale Carlo Levi guarda al mondo contadino di quell’epoca ormai lontana. E l’espressione più profonda e commovente di questo atteggiamento, fra tante descrizioni di paesaggio e ritratti indimenticabili, sono le prime righe del romanzo. Carlo Levi lo scrive a Firenze, in un rifugio clandestino, dal dicembre 1943 al luglio 1944, mentre la città è ancora occupata dai tedeschi.

“Sono passati molti anni, pieni di guerra… Spinto qua e là dalla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.



 

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