venerdì 28 agosto 2020

Evgenija Ginzburg, Viaggio nelle vertigine. Milano, Dalai editore, 2011.

 

Evgenija Ginzburg è stata una di quelle  donne coraggiose e colte che scrivendo le proprie memorie, o raccogliendo memorie altrui, hanno descritto la Russia sovietica e i lager di Stalin, arrivando fino a commentare la vita difficile nella odierna Russia post-comunista. Cito le poche autrici che conosco direttamente, ma le bibliografie sono piene delle opere di queste donne eccezionali.

I libri di memorie di Alja Rachmanowa, freschi delle dolorose impressioni del nuovo regime,  furono tradotti in italiano già negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.

Nel secondo dopoguerra vennero le due bellissime opere di Margarete Buber-Neumann (“Da Potsdam a Mosca” e “Prigioniera di Stalin e Hitler”) e quelle profonde e sensibili  di Nadežda Mandel’štam (“L’epoca e i lupi” e “Le mie memorie”).

Prima di questo monumentale “Viaggio nella vertigine” della Ginzburg, avevo letto i ricordi agghiaccianti della intrepida Evfrosinija Kersnovskaja, “Quanto vale un uomo”, e il recente “Tempo di seconda mano: la vita in Russia dopo il  crollo del comunismo” di Svjatlana Aleksievič.

Le settecento pagine del libro di Evgenija Ginzburg  raccontano infiniti episodi, anche minimi,  della vita nei lager, i dialoghi che li accompagnavano e le parole e i nomi (i complessi e lunghi nomi russi e delle altre nazionalità sovietiche) di alcune centinaia di persone incontrate nei suoi diciotto anni di pena. Come ha fatto la Ginzburg a ricordare tutto? “Ci sono riuscita, spiega nelle ultime pagine, perché proprio questo - ricordare per poi scrivere - è stato lo scopo fondamentale della mia vita nel corso di tutti quei diciotto anni. La raccolta dei materiali per questo libro è cominciata nel momento stesso in cui ho varcato per la prima volta la soglia dei sotterranei della prigione speciale dell’Nkvd [la polizia segreta]”.

L’attenzione ad osservare e ricordare alimenta nella Ginzburg una continua riflessione su se stessa, un ininterrotto esame di coscienza che, mi pare, la distingue in modo particolare dalle altre autrici che conosco. A conclusione del suo grande lavoro e della sua costante ricerca spirituale, lei nega, forse con sorpresa del lettore, che il mondo sia un caos insensato. “E io, invece, verso la metà degli anni Cinquanta ero profondamente convinta della sua razionalità, del profondo significato di ogni cosa, del fatto che Dio vede la verità, anche se non la svela subito”.

Mi è sembrato molto interessante e molto vero il senso di stupore che la Ginzburg ha provato, di fronte agli avvenimenti che la colpivano, sia prima, durante i dieci anni della sua deportazione,  che poi, negli otto anni della sua semi-libertà. “Credo sia stato proprio questo stupore ad aiutarmi a sopravvivere. Mi sono trovata nella duplice posizione di vittima e di osservatrice”.

La sua attitudine ad osservare mi sembra una grande conquista morale. “Poi trascorrono lunghe giornate penose in cui la vita che arde sempre più fiocamente in me viene sostenuta da un’indistruttibile curiosità. Di vedere la fine. Anche la mia”.

Grazie a questa capacità, direi, quasi serena di osservare, la Ginzburg riesce a cogliere e a descrivere perfino con umorismo le espressioni dei volti degli inquisitori.

“... seduto dietro la scrivania, munito di tre apparecchi telefonici, con il muso grassottello, luccicante e splendente, da cui colava l’imbecillità come il grasso dalla carne di montone”.

“Osservo i volti dei miei giudici... Hanno tutti la stessa faccia, sebbene uno sia bruno e un altro abbia ormai i capelli bianchi. Hanno l’espressione che può avere un pesce in gelatina”. Anche la voce del presidente della Corte assomiglia all’espressione dei suoi occhi. “Se un pesce in gelatina potesse parlare,  avrebbe proprio una voce come la  sua”.  Ma Ginzburg sa anche fare ritratti acuti e severi degli uomini e delle donne del potere sovietico, ispirati non da odio ma da avversione morale e da interesse psicologico, nella tradizione della grande narrativa russa.

Nel profondo del suo spirito la Ginzburg è serena, e dal vagone affollatissimo che la porta verso la Kolyma, nonostante l’impressione di essere trascinata lontano, “non solo dalle nostre città, ma anche dalla nostra epoca, indietro verso l’età delle caverne”, può osservare che “gli uccellini sono posati sui fili come note sul pentagramma”. Nel regno del gelo e della solitudine, “ogni notte mi preparavo a morire” e “ogni mattina avevo voglia di morire”. Tuttavia Eugenia resiste. “Sono attaccata a questa esistenza umiliante, a queste giornate, ognuna delle quali è uno sputo in piena faccia”. Descrive con commozione il paesaggio. “Un maestoso bosco d’alberi d’alto fusto, che puntano dritto alle stelle le loro cime. Un fiume, che gorgoglia capriccioso contro il cielo, potente anche sotto il ghiaccio che lo incatena. Collinette che sembrano scolpite. Di notte il cielo si illumina di costellazioni vertiginosamente antiche che richiamano il principio dei tempi”.

E altrove scrive: “La tormenta della Kolyma si distingue dalle altre non solo per la sua intensità: la sua caratteristica principale, infatti, è di portare con sé la sensazione di un ritorno allo stato primordiale, inerme, dell’uomo... E’ come se vorticasse, ululasse, cercasse di farti uscire di senno una specie di forza diabolica rianimatasi dal fondo dei tempi. Risveglia ricordi ancestrali, un’angoscia preistorica. Trasforma l’uomo in un essere nudo sulla terra nuda”.

Le mie osservazioni, e le citazioni su cui si appoggiano, sono marginali rispetto alla sostanza del libro, che è stato scritto con l’unico scopo di far conoscere le feroci condizioni di vita nei campi e le amicizie e l’umana solidarietà che possono nascere in quei luoghi fra deportati.

Ma su questi aspetti essenziali, già abbastanza noti, non mi dilungo. Dico solo che un semplice lettore, per quanto si sforzi, non riesce a immedesimarsi e a rendersi ben conto di quella realtà e che legge queste storie, anche se forse non lo confessa nemmeno a se stesso, come se fossero terribili favole di orchi e di streghe. Credo che sia in buona parte inevitabile. Lo riconosce la stessa Ginzburg. “Voi [lettori e ascoltatori simpatizzanti ma estranei e lontani] immaginate tutto questo in modo puramente intellettuale, mentre noi sappiamo”.

L’acutezza morale della Ginzburg quasi eguaglia quella di Tacito. Lo storico latino scrisse che “è proprio della natura umana odiare colui a cui si è recato danno”. Ginzburg è meno pessimista e non generalizza. Scrive: “Ero certa che Stalin non avrebbe mai perdonato coloro ai quali aveva causato così tante sofferenze”. E si diverte  a chiamare il Generalissimo con gli appellativi con cui lo chiamavano i suoi servi e adulatori: il nostro Amato Padre, il Migliore Amico delle famiglie sovietiche, l’Ispiratore, l’Organizzatore, il Grande Linguista, il Padre Amoroso, il Grande Saggio...

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